Al Regio di Torino l’allestimento del regista cinematografico per l’opera mozartiana in cartellone sino al 22 aprile
di Attilio Piovano
Per la gioia dei mozartiani doc è riapparso in questi giorni al Regio di Torino l’allestimento di «Così fan tutte» che il regista cinematografico Ettore Scola – ora ultra novantenne, entrato nella storia del cinema per memorabili pellicole quali «C’eravamo tanto amati», «Ballando ballando» e soprattutto «La famiglia», firmò nella stagione 2002-2003 al suo esordio in ambito lirico, e si trattò di un esordio alla grande. Regia ora ottimamente ripresa da Vittorio Borrelli con qualche gag di troppo (come si dirà), ma è peccato veniale. Allestimento davvero di elevato livello, questo del Regio, preciso, puntuale e nel contempofantasioso, ma rispettoso del dettato testuale. Una regia, quella di Scola/Borrelli che muove i personaggi con garbo ed un pizzico di maliziosa civetteria, come si conviene ad un’opera spigliata; un’opera – si sa – che gioca amabilmente sull’infedeltà femminile, con ironia e levità, ma anche sui luoghi comuni e sulle ‘certezze’ maschili, tant’è che si potrebbe riformulatre il titolo in «Così fan tutti». A far da appropriata cornice le meravigliose scene di Luciano Ricceri, collaboratore di lunga data di Scola: scene realistiche e smaccatamente partenopee, con quella poetica visione marina sul porto, come del resto gli eleganti e curatissimi costumi di Odette Nicoletti dalle forti cromie (abiti azzurri per Dorabella e Fiordiligi, rosso cremisi per i due innamorati, color crema per il ‘filosofo’ Alfonso, eleganti perfino quelli della pimpante Despina).
Bella la simmetria nel disporre le coppie in giardino, con calligrafica e meticolosa puntualità, nella scena finto patetica del commiato. Scene realistiche, si diceva: nella versione del 2003 ci erano parse talora fin troppo infarcite di arredi (che ora infatti, restaurate e rifatte grazie alla professionalità delle maestranze del Regio guidate dall’esperta Claudia Boasso) sono state alleggerite; scene pur dense di rimandi alle galanterie settecentesche nella complessità di ambienti, budoirs e salotti, entro un impianto di gusto ricercato, ma invero efficaci, al pari delle luci che esaltano per lo più la solarità degli esterni e la clarità degli ambienti. Evidenti le citazioni colte con allusioni al Palazzo del Vanvitelli di piazza della Carità e molta l’animazione sul palco, con una quantità notevole di comparse, ma nulla di caotico, nemmeno l’arruffato andirivieni di personaggi impegnati a spostare merci e masserizie tra le navi alla fonda: tutto (o quasi) risulta perfettamente funzionale alla vicenda ed all’intrigo amoroso concepito dalla premiata ditta Mozart / Da Ponte (ogni volta che ci si imbatte in questo capolavoro non si finisce di ammirare la modernità del libretto, tra tutte una sola citazione: «far all’amor come assassine, e come fanno al campo i vostri cari amanti», esorta Despina, incline ad un esplicito e semplificato carpe diem, e pare il dialogo tra ventenni odierne, non troppo preoccupate da remore morali, per nulla restie a cambiare fidanzati nel giro di poco tempo).
Così pure non ci si stanca ma di ammirare come Mozart abbia superato di slancio le convenzioni dell’epoca, sicché è davvero difficile restringere «Così fan tutte» al territorio pur prevalente dell’opera buffa. Ci sono allusioni all’opera seria in non pochi passi e recitativi, talora per burla (come quando le due ragazze si disperano «immergere in cor l’acciar» per l’improvvisa dipartita degli amanti) e ci sono tratti sentimentali, lacrimevoli, soprattutto c’è una cura musicale estrema, nel dar rilievo, con una frase, un timbro, un dettaglio, anche a minime pieghe psicologiche del testo. La regia, pur insistendo soprattutto sul versante buffo, coglie però tutto quanto. Si diceva qualche gag di troppo: per dire, si sarebbe potuto evitare di impegnare Despina ad accogliere nella sua stanza ad ogni pie’ sospinto il proprio amante, intrattenendosi poi subito con lui, in esplicite moine ed ancor più, che di fatto distraggono dalla parte principale del palcoscenico dove ora Fiordiligi, ora Dorabella ora gli altri protagonisti sono impegnati sul versante vocale. Ma è piccola cosa, perdonabile, nell’economia generale dello spettacolo.
L’opera, in scena dallo scorso 10 aprile, resta in cartellone sono al 22 di questo mese. Due i cast, come di norma. Abbiamo assistito alla prima recita del secondo cast (lo scorso mercoledì 11), di fatto non certo inferiore alla prima compagnia che molti lettori/ascoltatori/melomani hanno sicuramente seguito, potendoli valutare appieno, grazie alla diretta radiofonica.
Sul versante delle voci occorre registrare le prove fornite da Erika Grimaldi e Daniela Pini nei panni rispettivamente di Fiordiligi e Dorabella. Sono parse in buona sintonia vocale (leggermente diseguali sul piano scenico, più spigliata Fiordiligi, leggermente più ‘tenuta’ Dorabella), hanno sfoderato virtuosismo ove occorreva, ma anche dolcezza di accenti ed eleganza di fraseggi (nelle arie « Smanie implacabili» e «Come scoglio immoto resta»). La Pini poi ha raccolto convinti applausi nell’aria di tono programmatico «È amore un ladroncello», vero manifesto della sua sensiblerie.
Un plauso specialissimo ad Arianna Vendittelli, assai convincente, sia sul piano vocale, sia pure quanto a presenza scenica, nel ruolo dell’intrigante ed astuta Despina protagonista di ben due travestimenti, prima in qualità di dottore deus ex machina, alla notizia del finto avvelenamento dei fidanzati e poi come notaio per la burla del falso matrimonio. La Vendittelli, dalla vocalità mutevole, arguta e piena di humour, strappa risate convinte, senza peraltro mai eccedere (magistrale la sua ‘morale’ scanzonata e allegra espressa nella spassosa aria «Una donna a quindici anni»).
Quanto ai protagonisti maschili Alessio Arduini ed Edgardo Rocha, baritono e tenore, hanno validamente disimpegnato i ruoli di Guglielmo e Ferrando, entrambi ben calati nella parte e con valida varietà di accenti (buona è parsa «Donne mie la fate a tanti», aria affrontata con brio e vivacità). Bene anche Natale De Carolis nel ruolo del filosofo Don Alfonso, vero motore della vicenda, distaccato, ma non cinico, disincantato, ma non scaltro, sostanzialmente ottimista e fiducioso nel trionfo dell’amore: e la regia pone in luce soprattutto tali tratti. Vocalmente ci si aspettava qualche brivido in più, ma nella sostanza ha tenuto bene.
Sul podio Christopher Franklin si è mostrato direttore puntuale e preciso, perfettamente a proprio agio nel repertorio settecentesco, abile nel rendere la trasparenza della effervescente partitura mozartiana, capolavoro di idee melodiche zampillanti come acqua sorgiva e soluzioni timbriche di soave grazia (i clarinetti trattati con impareggiabile sagacia), ben assecondato dall’Orchestra del Regio in buona forma. Franklin – che ha convinto fin dalla Sinfonia – ha saputo imprimere il ritmo appropriato allo strumentale, specie ai recatitivi, apparsi sciolti e scorrevoli come non mai (ed è un vanto) e così pure alle voci, di fatto in simbiosi con la visione registica. A completare l’indubitabile successo ottimo il contributo del coro istruito da Claudio Fenoglio. Ancora da segnalare l’imprescindibile ruolo di Carlo Caputo al fortepiano, nel disimpegno dei molti recitativi (ben coadiuvato da Relia Lukic al violoncello). Tra i punti che hanno maggiormente emozinato certo il terzetto «Soave sia il vento», reso con naturalezza e scorrevole dolcezza, ben assecondando le simpatiche onomatopee poste in partitura da Mozart. Superativi i pezzi d’assieme (primo e secondo atto), per resa scenica e vocale: pezzi d’assieme che già paiono preconizzare Rossini, ormai dietro l’angolo.
Nove complessivamente le recite, per uno spettacolo che il pubblico mostra di apprezzare calorosamente. Da menzionare l’alto livello del primo cast (rilevato dalla diretta radiofonica), cast costituito da Carmela Remigio (Fiordiligi), Laura Polverelli (Dorabella), Marco Nisticò e Andrew Kennedy (Guglielmo e Ferrando), Barbara Bargnesi (Despina) e Carlo Lepore (Don Alfonso).
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