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Il celebre tenore tedesco ha diretto l’ensemble Le Concert Lorrain al Lingotto di Torino
di Attilio Piovano
A poco più di un mese dall’esecuzione della bachiana «Johannes-Passion BWV 245» diretta lo scorso 1 marzo dallo specialista del repertorio barocco Helmuth Rilling, alla guida della Sinfonica Nazionale Rai (e recensita su queste stesse colonne) ieri sera, martedì 3 aprile, in sintonia con i tempi liturgici di questa Quaresima 2012, i torinesi hanno potuto beneficiare di un’altra interpretazione della sublime partitura del Kantor, per I Concerti del Lingotto, presso l’Auditorium ‘G. Agnelli’ di via Nizza. A dirigere questo singolare monumentum eseguito per la prima volta a Lipsia il Venerdì Santo del 1724 – tra le più alte espressioni della spiritualità luterana e, di fatto, tra le più straordinarie creazioni dell’intera letteratura storico musicale – Christoph Prégardien, celebre tenore tedesco, specie acclamato liederista, più volte in passato impegnato nel ruolo dell’Evangelista; Prégardien ha deciso di cimentarsi con la direzione sollecitato dalla clavicembalista francese Anne-Catherine Bucher e dal violoncellista tedesco Stephan Schulz, fondatori nel 2000 dell’ensemble strumentale Le Concert Lorrain. Ad affiancare tale giovane, ma già consolidata formazione, ieri sera al Lingotto c’era il blasonato Nederlands Kamerkoor la cui fondazione risale invece addirittura al lontano 1937. La serata ha visto impegnato inoltre un cast di notevole rilievo e forte caratura che comprendeva il soprano Sibylla Rubens, il controtenore Andreas Scholl, i tenori Eric Stoklossa (nel ruolo dell’Evangelista) e Andreas Weller, (sul fronte delle arie), i bassi Dietrich Henschel (arie e Pilato) e Yorck Felix Speer (cui spettava la parte del Cristo).
Una interpretazione stilisticamente del tutto appropriata che non solo restituisce la partitura alla sua originalità linguistica, ma nel contempo ne rilancia tutta l’emozionante ‘carica’ espressiva

Un disguido legato a inconvenienti aereo portuali ha fatto sì che strumentisti e cantanti siano giunti a Torino all’ultimo momento, sicché, dopo l’annuncio d’ordinanza che segnalava il contrattempo, si sono catapultati in sala in abiti casual, verosimilmente senza nemmeno poter realizzare una prova acustica. E infatti nell’iniziale «Herr, unser Herrscher» (ma, a onor del vero, solo nelle prime battute dopo l’ingresso del coro) qualcosa sembrava non essere a posto al 100% e lievi sbandamenti si sono registrati nel fugato. Prégardien che ha a lungo cantato e inciso sotto la direzione di mostri sacri del barocchismo doc quali Herreweghe, Harnoncourt, Koopman e Gardiner, ha idee precise sull’interpretazione della «Johannes», e si sente (ben al di là delle sue dichiarazioni d’intenti in intervista).
Sicché la ‘sua’ lettura è stata un meraviglioso arco, una curva tendente alla concitazione, ovvero al punto di massima tensione siglato dall’incalzare drammatico degli eventi (il coro «Weg, Weg» che suggella il precipitare inesorabile della situazione). Poi, dopo il climax del «Es ist vollbracht» («Tutto è compiuto», al termine del recitativo n° 29) la calma e la quiete subito riverberata dall’aria Molto adagio che immediatamente segue, giù giù sino alla pacificante quiete del coro finale «Ruht Wohl»; appena un poco più movimentato nella sezione centrale, «Das Grab», ha regalato non poche emozioni, poi ancora prolungate dalla solennità del Corale conclusivo «Ach Herr» che Prégardien ha molto enfatizzato dal punto di vista ritmico, addirittura verso la fine raddoppiando i valori ritmici.

I molti corali, dunque: Prégardien ne ha colto bene l’esprit, ora con fraseggi sciolti («O Grosse Lieb» ed anche «Dein Will»), ora conferendo una luminosa e compassata maestosità come nel caso del sublime «Wer hat» nella limpida tonalità di la maggiore, o anche nel caso del n° 26, «In meines Herzens Grunde», e così pure nel n° 28 («Er nahm») solo in qualche caso eccedendo un po’ troppo nei – per così dire – ‘tira e molla’ agogici (è il caso del n° 14 «Petrus, der nicht denkt zurück»). Da segnalare un vezzo, curioso anche se invero non privo di un suo singolare fascino: Prégardien nei corali ‘chiude’ invariabilmente dapprima gli strumenti, lasciando ancora le voci un breve istante: singolare e un poco bizzarro, ma per quanto strano possa sembrare, conferisce una sorta di ‘riverbero acustico’ delle voci, insomma un ‘effetto’ da ambientazione spaziale chiesastica non spregevole (anche se alla fine prevedibile e dunque un poco meccanico).
Ottima la prova fornita dal coro nei vari e determinanti interventi, a partire dall’iniziale «Jesum von Nazareth», poi molto apprezzata la spigliatezza di «Bist du nicht». Qualche linea di metronomo di troppo in «Wäre dieser», in apertura della seconda parte, risultato un filino nevrotico, ma molto, davvero molto efficace la lancinante emersione di «Kreuzige, Kreuzige!» affrontato con fraseggi staccati ed incisivi e ammirevole per chiarezza, per trasparenza dell’ordito, la resa della fuga di «Wir haben ein Gesetz». Intenzionalmente – immaginiamo – Prégardien, nella sua lettura sobria e lontana da effetti plateali, ha tenuto invece sotto tono le celeberrime invocazioni «Wohin» nell’aria con coro che allude al Golgota; si sarebbe voluto il coro un poco più pregnante, sicché a nostro avviso ha perso un poco di efficacia scivolando via, pur guadagnando però in intimismo. Per contro Prégardien ha colto bene il senso della rozzezza dei soldati, conferendo il giusto carattere al coro che sottolinea l’atto di tirare a sorte la tunica di Cristo («Lasset uns den nicht zerteilen»), con quel basso albertino arrogante e inverecondo e ancor più gli strumenti petulanti e indifferenti al dramma che si sta compiendo.
Le Concert Lorrain suona ovviamente con strumenti ‘originali’, dunque flauti traversieri, viola da gamba (ottima), liuto e via dicendo. Una esecuzione che dunque oggi si suole definire filologica, ma è una convenzione e di fatto fa torto agli strepitosi interpreti, insomma preferiremmo definirla una interpretazione stilisticamente del tutto appropriata che non solo restituisce la partitura alla sua originalità linguistica, ma nel contempo ne rilancia tutta l’emozionante ‘carica’ espressiva. Ecco allora che merita rilevare la cura certosina posta da Prégardien – da buon liederista – nel porre in luce dettagli piccoli e talora anche piccolissimi, ma determinanti per una ‘resa’ totale (dunque non solo, come ragionevolmente ci si aspetta, il vocalizzo di Pietro in «Weinete bitterliche»). Per dire, abbiamo molto apprezzato certe sottolineature, alcune pause, il singolare peso conferito a certuni passaggi, qualche esempio soltanto per capirsi: l’allusione alla ‘lotta’ delle guardie nel recitativo 16e, il recitativo 18c, con l’organo impetuoso e il riferimento a Barabba, lo squarcio melodico che rileva il desiderio sincerissimo di Pilato e la sua benevola disposizione d’animo («Da quel momento cercava di liberarlo»), e ancora la ‘consegna’ alla madre («Ecco tuo figlio»), lo squarciarsi del velo del tempio, la calma con cui viene dipanato il racconto dei momenti immediatamente successivi alla morte e molti altri passaggi ancora.
Da ultimo, ma sono ovviamente le protagoniste, le (per lo più) ottime voci. Assai ammirato il soprano Sibylla Rubens, voce appropriata, incisiva e penetrante e molta eleganza. Benissimo il tenore Stoklossa che ha dipanato con efficacia incredibile il ruolo dell’Evangelista, con una partecipazione emotiva davvero indicibile. Valido, ma non strepitoso, il tenore Andreas Weller mentre il basso Henschel e più ancora Felix Speer (nel ruolo del Cristo) hanno raggiunto momenti di grande efficacia. Quanto al controtenore Scholl se nell’iniziale aria con gli oboi «Per liberarmi dai lacci» stentava un poco a svettare sopra l’orchestra, quanto meno nelle note della tessitura mediana, si è poi però riscattato alquanto nella già citata aria della seconda parte «Es ist vollbracht» dove emergeva, dato anche l’organico delicato (viola da gamba), e soprattutto ha dato prova di grande destrezza e vero virtuosismo nella seconda e più animata parte (Alla breve). Protratti e convinti applausi da parte di un pubblico folto che a lungo – ne siamo certi – conserverà memoria di questa interpretazione toccante e intelligente.
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Da appassionato di musica classica, con qualche cognizione tecnica di musica e di meccanica del suono, seguo da alcuni decenni la vita musicale torinese. Recentemente ho conosciuto questo sito, che mi consente di confrontare le mie sensazioni spesso istintive, di dilettante, con le descrizioni analitiche e relative valutazioni sintetiche, contenute nelle approfondite recensioni di Attilio Piovano: recensioni estese, puntuali e chiare, che mi sono utili per capire meglio ciò che a volte riesco semplicemente ad intuire ovvero mi è sfuggito completamente. Le considero una lettura utile da un punto di vista formativo per chi desideri approfondire la propria cultura musicale.
Ieri mattina su SKY Classica ho visto-ascoltato un’altra versione (importante) della stessa Johannes Passion ascoltata al Lingotto (diretta da Karl Richter con Münschner Bach-Chor e Orchester in una chiesa barocca), forse vicina stilisticamente a quella eseguita al Lingotto. Questa circostanza ha arricchito per me il confronto tra le due edizioni ascoltate recentemente a Torino (Lingotto e RAI), diverse per quanto riguarda solisti, coro, orchestra e localizzazione dell’evento, spingendomi ad esternare queste brevi osservazioni.
Le premesse servono a chiarire il senso ed i limiti di questo mio intervento che, pur riguardando questo concerto, ha carattere più generale.
Attilio Piovano ha sottolineato quanto c’era di eccellente tra i protagonisti della serata del Lingotto, come aveva già fatto per l’edizione della RAI. Penso che, ad un ascoltatore medio di concerti classici, al Lingotto le maggiori (forti) emozioni siano state stimolate dai bravissimi cantanti solisti e dall’ottimo coro; e per quanto mi riguarda non trascurerei la viola da gamba insieme a violoncello e contrabbasso quando sono emersi in primo piano. Alcuni aspetti acustici, riguardanti soprattutto (ma non solo) l’equilibrio dei suoni tra solisti, coro e orchestra, hanno attirato la mia attenzione e disturbato la mia “estasi” a fronte di una esecuzione di così alto livello.
La riflessione potrebbe essere estesa alla distinzione tra strumenti antichi e moderni, tra musei e vita vissuta, ma non mi pare questa l’occasione pertinente per farla. Riguarda invece, in parte, la dimensione del coro e dell’orchestra; mi chiedo: è corretto ed esaustivo valutare, sottolineo valutare che è ciò che si fa in una recensione, un evento di questa importanza senza tener conto dell’ambiente in cui sono collocati gli interpreti?
Leggendo sicuramente le recensioni torinesi, ma anche altre in rete, non ricordo di aver visto discutere dell’effetto ambiente, che forse non viene considerato perché non dipende dagli esecutori. Nel concerto di cui si discute, all’Auditorium del Lingotto, a volte non ho sentito l’orchestra (specie violini e viole, in qualche passaggio l’insieme), soverchiata da un coro di 20 cantori. Rimane in me il dubbio su quale fosse la causa.
Quando ero giovane e ingenuo credevo che le corde dei violini e delle chitarre emettessero dei suoni, poi ho imparato che il suono e la sua qualità dipendono dall’”ambiente” che é nell’intorno delle corde. Allo stesso modo il suono prodotto in un concerto dall’orchestra e dai cantanti è significativamente influenzato dalla sala. Istintivamente, al Lingotto mi è mancato l’ambiente di una Chiesa barocca, forse più idoneo a valorizzare la prestazione dell’orchestra.
Ipotizzo che acusticamente un contributo avrebbe potuto essere dato dall’avvicinamento all’orchestra delle quinte in legno (presenti sempre sul palco) specie da un lato, allo scopo di raccogliere e convogliare il suono dell’orchestra, specie degli archi; forse. Naturalmente penso ad una regolazione qualitativa, ad occhio, essendo impensabile effettuare misure che sarebbero veramente significative se raffinate per strumentazione ed operatori tecnici (che a Torino certamente non mancano).
In sintesi: ho inteso solo suggerire un’attenzione di tipo culturale su questo problema (rapporto tra esecutori e sala da concerto), provare a capire se abbia senso anche solo un facile intervento di adattamento del palco al tipo di formazione orchestrale che vi agisce.
mario c.