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Il pianista impegnato nel I libro del bachiano Wohltemperierte klavier per l’Unione Musicale torinese: vera lezione di stile e di intelligenza interpretativa
di Attilio Piovano
Ieri sera, mercoledì 4 aprile, a Torino una pioggia fitta e battente ci ha accolti all’uscita dal Conservatorio, ma il folto pubblico che assiepava la sala ha attraversato piazza Bodoni pedonalizzata del tutto incurante, come in una sorta di estasi collettiva: tutti avevamo ancora nelle orecchi le magie di quel labirinto armonico che è l’ultimo Preludio e Fuga del Primo libro del bachiano Clavicembalo ben temperato che il fuoriclasse Pietro De Maria, per il cartellone dell’Unione Musicale, aveva appena terminato di interpretare (due ore filate di musica, per intero a memoria, oltre 100 pagine per lo più di polifonia serrata, dacché, si sa, molti Preludi sono dei veri e propri fugati richiedendo una concentrazione ed uno sforzo intellettivo enormi): facendo seguire al ‘passeggiato’ barocco della mano sinistra di tale Preludio in si minore (e, s’intende alla complessità inaudita della Fuga) le mirifiche armonie del sublime (e celeberrimo) Corale Jesus bleibet meine Freude dalla Cantata 147 offerto come stupefatto bis.
Un’interpretazione quella del pianista De Maria a dir poco eccelsa. E dire che affrontare questo superbo monumentum richiede coraggio notevole, sapendo di doversi confrontare con se stessi, innanzitutto, poi con le interpretazioni ‘storiche’ più disparate, dalla genialità non priva di sregolatezza di un Gould (seguito oggidì da assai meno geniali emuli, e i nomi li lasciamo indovinare ai lettori musicofili), alle molte eccellenti altre ‘versioni’ pianistiche che dagli anni del pianista canadese sono apparse, in registrazione e dal vivo. Per non parlare delle varie e superbe interpretazioni al clavicembalo di cui – è innegabile – anche un pianista deve tenere conto inevitabilmente. Un pianista dunque, e un pianista che frequenta assiduamente Chopin ed il repertorio romantico. E allora ecco che già dal Primo Preludio e Fuga De Maria lascia comprendere qual è la ‘sua’ idea interpretativa. Puntando su una fluidità che, nel Preludio in do maggiore, ma non solo in quello, pare già perfino preconizzare Chopin, senza timore di bacchettate accademiche, dunque con uso (pur sobrio, ma convinto) del pedale, in qualche caso addirittura con effetti ‘alonati’ (è quanto è accaduto ad esempio nel superbo Preludio n° XXII in si bemolle minore, dove De Maria a rivelato un pathos incredibile, centellinando nota dopo nota, e così pure nella Fuga che con quello stretto di incredibile perfezione matematica rasenta il sublime.
De Maria nelle Fughe solitamente mette in evidenza le voci con una chiarezza indicibile, insomma una lezione di stile e di ‘analisi’ nel vero senso della parola. Così già è accaduto nella Fuga in do maggiore, ma analogamente temi spiccati e incisivi in quella in do minore ed in quelle immediatamente successive, in do diesis maggiore ed in re maggiore (dai ritmi francesi affrontata con energia e vigore quasi orchestrali). Tutto un altro clima per la Fuga a 5 voci in do diesis minore, di cui De Maria ha posto in luce la fitta tramatura, come se avesse sotto le dita i registri di un organo. E si potrebbe proseguire, ma ci pare pedante trascrivere dagli appunti di ascolto che è venuto spontaneo stendere, più per fissare le linee guida dell’interpretazione di De Maria che per vero e proprio pro memoria ad usum della recensione. Linee guida che appaiono informate al desiderio di porre in luce la variegata complessità del monumentum bachiano.
E allora, per dire, che belle le sonorità ha saputo inventare per il Preludio in mi bemolle minore, compassato come una sarabanda, e qualcuno sostiene essere stato ‘pensato’ per un clavicordo. Per contro la scioltezza agile, ma non nevrotica (alla Glenn Gould) dei Preludi fondati su ostinati ritmici come il II, ed il III, ma anche il IV dal pizzicato di archi nella sinistra. Ecco, il pizzicato di archi, ci è venuto da scrivere: spesso si udivano al basso suoni vellutati di violoncello, flauti all’acuto, viole nelle zone mediane e via dicendo. Un amateur in sala, nell’intervallo dopo i primi dodici numeri, affermando di conoscere a menadito l’intero Clavicembalo ben temperato (e gli crediamo) si stupiva – e come dargli torto – di una miriade di dettagli messi in luce, una quantità incredibile di elementi tutt’altro che secondari che di solito non emergono. Controcanti, spunti di soggetti ed altro ancora. Un altro ascoltatore si stupiva della qualità del suono; provando a rifletterci ne convenivamo che si tratta solo ed esclusivamente del tocco di De Maria, nessun trucco con meccaniche ‘preparate’, registrazioni speciali per l’affondo dei tasti (come fanno taluni, ad esempio Zimermann), niente di tutto ciò, come ci confermava Roberto Grosso, vero artigiano-artista, il principe degli accordatori almeno in ambito subalpino, che ci assicurava aver solamente intonato lo Steinway «un poco più luminoso del solito».
E De Maria col suo tocco ha dato luminosità a non pochi Preludi, ad esempio al sereno e brillante n° XVII in la bemolle maggiore, e mano a mano che si procedeva nelle tonalità pareva di assistere ad uno schiarirsi progressivo, fino alla trasparenza ialina del n° XXIII in si maggiore, quasi un ascendere all’empireo. Ancora qualche nota puntuale: nel Preludio n° VII in mi bemolle maggiore abbiamo ammirato un tocco quasi organistico ed un colore pre brahmsiano. Ecco, il pregio di De Maria è stato anche di far comprendere come nel Clavicembalo ben temperato ci sia la radice dell’intera letteratura pianistica, da Beethoven a Brahms e oltre. E peccato che proprio dopo tale Preludio e Fuga ci sia stata una indebita interruzione per fare entrare una cospicua parte di pubblico (ignara che il concerto s’era iniziato insolitamente alle 20,30 anziché alle 21). Molta la brillantezza sfoggiata nelle Fughe, ad esempio in quella in mi bemolle maggiore, ma anche in quella in mi maggiore, altresì scelte coraggiose, controcorrente, per dire la lentezza inconsueta (ma perfettamente funzionale) della Fuga n° VIII di cui De Maria ha dipanato in maniera apodittica la complessa polifonia, compreso il raddoppio dei valori al grave.
E ancora: delicatezza da pastorale (Preludio n° IX) e una parsimonia indicibile negli abbellimenti. Altri finiscono per lardellare di inutili gruppetti, trilli e via dicendo, mentre De Maria preferisce affidarsi alla chiarezza dei fraseggi ed alla precisione del ritmo. Ecco, anche questo è un aspetto interessante: la precisione del ritmo, inflessibile, ma non rigida, tant’è che in qualche caso non teme di accelerare o rallentare vistosamente con effetti che possiedono una loro coerenza perché motivati da ragioni per così dire ‘musicali’. Di molti Preludi, ad esempio del n° XI (ma anche di qualche Fuga come ad esempio la n° X, unica a due voci) De Maria pone in luce gli aspetti armonici: una lezione di analisi come a dire la polifonia di Bach è sempre una polifonia armonica, aspetto orizzontale sì, ma che non esclude la verticalità degli ‘accordi’. Quanto pathos e languore nel Preludio in fa minore e si potrebbe andare oltre, ma non intendiamo abusare della pazienza del lettore (anche se magari qualcuno è disposto, perché no, a tenere la parte sotto agli occhi e ad andare a verificarsi il ‘carattere’ di ogni singola pagina, l’occasione per un ri-ascolto). Dolcezza inaudita per il n° XIII e scioltezza brillante, comme il faut per sol maggiore, n° XV, aperture romantiche nella umbratile n° XVI e così via.
Insomma, un’occasione preziosa per confrontarci ancora una volta con il capolavoro del Kantor e ammirarne la perfezione architettonica, ma anche la profondità del pensiero. Un’ultima annotazione, ma non sembri pedantesca nota professorale: abbiamo inventariato in tutta la serata due sole note false – diconsi due sole note – entro un corpus di oltre cento pagine di polifonia, e tutte a memoria, e merita ribadirlo: una tenuta anche psicologica a dir poco incredibile. E il sommo Bach ancora una volta ad indicarci la via maestra dello Spirito che crea e soffia. E ci viene da pensare ad un’amica over 90 (sic) che tutte le mattine suona un Preludio e Fuga dal Clavicembalo ben temperato: per propiziare la giornata. Un poco la invidiamo e magari dovremmo provare ad imitarla.
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La più straordinaria performance di De Maria, che mai avevo sentito suonare così. Sublime dalla prima all’ultima nota: tocco di indicibile bellezza ed espressività, chiarezza strepitosa del contrappunto, fantasia (e anche coraggio) da lasciare esterrefatti. Dopo il primo preludio (che guardava avanti verso Chopin, tuttavia restando rigorosamente Bach), mi chiedevo come diavolo avrebbe fatto a reggere tutto il primo libro con quell’idea interpretativa. Ebbene, lo ha fatto. Con coerenza assoluta, anzi diventando via via sempre più luminoso, quasi visionario. Condivido la recensione di Piovano dall’inizio alla fine, in particolare il passo: “il pregio di De Maria è stato anche di far comprendere come nel Clavicembalo ben temperato ci sia la radice dell’intera letteratura pianistica, da Beethoven a Brahms e oltre”. E’ esattamente quello che nel mio piccolo penso anch’io: questa non è la musica del passato, è la musica dell’avvenire, o dell’assoluto. Ho sentito una volta De Maria, a Bardonecchia, suonare un eccellente Ligeti. Ma questo Bach sembra andare addirittura oltre Ligeti, verso l’infinito (in termini di bellezza pura e coinvolgimento emotivo non c’è ovviamente confronto, anche se ho molta stima per Ligeti).
De Maria, che di norma (a mio parere) suona stupendamente qualche pezzo e così così tutto il resto (inevitabile, data l’immensità del suo repertorio), questa volta ha suonato da dio dall’inizio alla fine, rilassandosi soltanto nel bis (era stanco, e lo credo bene: è stata una prova di resistenza e concentrazione assoluta, da massacrare un toro).
E pensare che se avesse suonato così in un concorso lo avrebbero massacrato. Questo Bach è quasi una trascrizione, ottenuta senza cambiare una sola nota. De Maria è dunque anche compositore: compone attraverso l’interpretazione. Senza mai tradire Bach, ma semplicemente estraendo alcune delle (molte? infinite?) possibilità che evidentemente sono racchiuse in partitura, anche all’insaputa del compositore (secondo Adorno nell’opera compiuta – di filosofia, d’arte e mi permetto di aggiungere anche di scienza – c’è molto di più di quello di cui è consapevole l’autore). In attesa che qualcuno le intraveda, le faccia proprie e le riveli. Libertà assoluta, eppure (incredibilmente!) nessun arbitrio. Per me, il più bel concerto dell’anno: anzi non un concerto, una rivelazione.
Sono sicuro che altri musicologi avrebbero scritto che Bach non si suona così; che si è persa l’aura barocca, la sonorità clavicembalistica e via dicendo; un clavicembalista o fortepianista di stretta osservanza filologica sarebbe rimasto inorridito. In fondo, è comprensibile: un Bach così si può immaginare esclusivamente su un pianoforte moderno, suonato con la sensibilità di un interprete che abbia percorso e assimilato tutta la storia della musica, dagli adorati romantici fino a Debussy e ai contemporanei. Ma come, allora anche questa possibilità (il pianoforte del futuro!) è nascosta in qualche modo in partitura? Naturalmente una cosa del genere va molto al di là di quanto un medio ascoltatore come me possa comprendere razionalmente: sono cose che danno le vertigini. I custodi della prassi esecutiva avrebbero (giustamente) rimproverato a De Maria la mancanza di scrupolo filologico, e si sarebbero persi l’incanto di questa rivelazione.
Come non provare invidia per non essere stati presenti alla serata? E che precisione nella recensione, sembrava di essere a concerto. Tra tutti i pezzi che mi piacerebbe aver potuto ascoltare (cioè tutti!) ne scelgo solo uno, il Preludio in mi bemolle minore: condivido l’affermazione di Piovano sulla destinazione clavicordistica (per il tipo di scrittura, ma non solo) poterla confrontare con la versione della Rosalyn Tureck, che come diceva il M.o Rattalino, suona il piano pensando al clavicordo, se non più bella (de gustibus) sicuramente più fascinosa di quella di Gould.