Nella rassegna “Talenti”, i giovani strumentisti hanno interpretato con successo musiche di Beethoven, Šostakovič e Mendelssohn
di Andrea Bellini
B ravi. Ma soprattutto giovani i tre protagonisti del secondo appuntamento della rassegna Talenti del Bologna Festival 2012. Giovanissima in primis la 19enne pianista padovana Leonora Armellini, che già vanta un curriculum di tutto rispetto: tra premi prestigiosi e collaborazioni eccellenti – non ultima quella con una leggenda del pianoforte come Martha Argerich con cui registrerà un concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven all’interno del Progetto “a più mani” della stessa pianista argentina che prevede l’integrale del ciclo con cinque pianisti diversi – può già aspirare ad un posto di primissimo livello nel gotha del pianismo internazionale; giovane è pure il fratello Ludovico Armellini, di un anno solo più anziano, con cui Leonora suona insieme praticamente da sempre (“gemelli telepatici” si sono definiti!), a cui per l’occasione si è aggiunta la violinista bolognese Laura Marzadori, ormai già una certezza del violinismo italiano, degna interprete di quello strumento che tanto lustro ha dato e dà tuttora alle fortune (ahimè poche, attualmente) del nostro prestigio a livello internazionale; “già” 23 anni per lei che alla freschezza della giovane età unisce una sicurezza ed una sensibilità di grande livello oltre ad un suono preciso e potente.
Bravi, dunque, anche nella redazione del programma, brani conosciuti ed amati dal pubblico che frequenta abitualmente la musica da camera, che loro affrontano con passione, ma soprattutto musiche che hanno solleticato la fantasia di schiere di appassionati, musicisti e non, tanto da ispirare titoli o commenti da entrare nella storia della musica, a partire già dal primo dei due Trii op. 70 di Beethoven, quello denominato “degli spettri” che per molti critici rappresenta la prima “finestra” sul nascente Romanticismo. In realtà già Mozart, ad esempio con i suoi ultimi concerti per pianoforte e orchestra, aveva preannunciato quei climi di forte connotazione psicologica, di contrasto interiore, di dialettica interna che caratterizzano il trapasso tra la classicità ed il Nuovo che avanza, di cui appunto Beethoven rappresenta il primo campione; la dicitura-sottotitolo che diventa titolo a tutti gli effetti, “spettri” appunto, aggiunta successivamente e non di mano dell’autore, sta a significare quel clima irreale e notturno e a tratti sognante che caratterizza l’ampio movimento centrale (Largo assai ed espressivo) di questa composizione che in realtà si dovrebbe denominare Sonata. Ascoltando la versione che il trio Marzadori-Armellini offre, più che spettri avvertiamo un senso di attesa, di aspettativa, in questo molto romantico, di un qualcosa di indefinibile, non si sa se di terribile o di felice, che deve comunque giungere. Scritto nel 1808 praticamente in contemporanea alla Quinta ed alla Sesta Sinfonia (che sono una il contrappeso emotivo dell’altra), il Trio op. 70 n.1 si colloca in una posizione intermedia, dove al lirismo del suddetto Largo, tempo centrale (in re minore) che richiama già le atmosfere del primo movimento della Nona (non a caso nella stessa tonalità), si contrappone il furore ritmico soprattutto del terzo ed ultimo movimento, un Presto che quasi scardina l’ormai classica forma sonata in continue trasposizioni tonali del tema che, tra scambi di frammenti melodici tra i tre strumenti e cesure improvvise, non dà soluzioni di continuità a questo corposo movimento finale. Al sottoscritto pare oggi un Beethoven meno interessante per delle orecchie moderne rispetto ad esempio all’ultimo ciclo di Quartetti, al cui cospetto questa pur famosa composizione deve cedere il passo per sopraggiunti limiti d’età!
Sorprendente poi l’affinità che i tre interpreti mostrano, come se avessero suonato insieme da sempre, nella ricerca degli equilibri sonori come degli accenti e dei respiri, e se per Beethoven si sono mossi quasi in punta di piedi, con uno stile che è apparso più classico che romantico, nel breve ma intenso Trio n.1 op. 8 di Dmitrij Šostakovič hanno profuso sensibilità ed emozioni a larghe mani, interpretando questa “tesi di laurea” di un compositore che all’epoca era giovanissimo come loro; un’opera prima, si potrebbe definire questo brano in un unico movimento che si basa su due idee tematiche contrastanti sotto tutti i profili, ritmico-melodici come pure di clima emotivo, che il diciassettenne Dmitrij dedica al suo amore contrastato e turbolento con Tatiana Glivenko, soffrendone forse così tanto da non riuscire a completarlo (le ultime 16 battute infatti sono del suo pupillo Boris Tishchenko), ma che già rivela l’abilità del musicista di San Pietroburgo e ne preannuncia in alcuni momenti i capolavori della maturità, come il Concerto per pianoforte ed orchestra o le grandi Sinfonie. Uno stile spezzettato, che è la sua cifra stilistica, dove a momenti lirici di grande passionalità si alternano sprazzi di furore quasi ossessivo tanto da fare di questa breve composizione scritta nel 1923 un grande affresco amoroso di gioia e disperazione. E qui, in un breve inciso solistico del pianoforte che porta all’agitato finale, si mostra la bravura e la sensibilità di Leonora; alla fine i nostri giovani interpreti ci hanno commosso davvero e la platea ha risposto con entusiasmo a questa limpida esecuzione, in un lungo applauso che sapeva di liberatorio e al tempo stesso di condivisione di affetti.
Dopo la pausa, un altro capolavoro cameristico di un già maturo Mendelssohn che, a trent’anni compiuti, è però al suo debutto nella forma trio con pianoforte: il Trio in re minore op.49; anche qui si può quindi parlare di un’opera prima, ma esordio più felice non poteva essere! Composizione che, all’opposto del Trio beethoveniano, è Romanticismo all’ennesima potenza, pur mediato dall’abilità del compositore nel dosare equilibri formali ed estetici con sapienza, sempre in bilico tra la ricerca della perfezione, opzione non rinunciabile del Classicismo, e la cantabilità melodica e i tormenti tipici del Romanticismo; il più classico tra i romantici, come è stato spesso definito Mendelssohn. Gestazione laboriosa per questo lavoro: la cura e l’attenzione furono tali da portarlo – inusuale per lui – a confrontarsi con un collega, il compositore e pianista Ferdinand Hiller, di pochi anni più giovane (amico fidato di Mendelssohn, che lo propose come suo successore alla direzione del Gewandhaus di Lipsia nel 1843, nonché eccellente esecutore), tanto da riscrivere in un secondo momento l’intera parte pianistica in uno stile più vicino a Schumann.
I tre musicisti affrontano tutto il Trio con baldanzosa sicurezza sin dall’iniziale Molto allegro e agitato per poi planare su uno struggente secondo movimento, l’Andante con moto tranquillo, il momento più suggestivo di tutto il concerto, dove ad una introduzione in arpeggi del pianoforte che ricordano le atmosfere delle Romanze senza parole si susseguono intrecci tra i due archi in elegante stile contrappuntistico, forte di una sapienza che traeva fonte dallo studio e dalla venerazione di Bach. Un velocissimo e frenetico Scherzo staccato a tempo vertiginoso ed il Finale (Allegro assai appassionato) chiudono il concerto, mostrando come questa composizione sia proprio nelle corde dei tre protagonisti sul palcoscenico.
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