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L’opera di Britten, nel nuovo allestimento pensato da Richard Jones per il teatro milanese, in scena fino al 7 giugno prossimo. Ritratto psicologico di un carattere dalle complesse sfaccettature
di Laura Bigi
«Entirely English poet» era George Crabbe (1754-1832) secondo E.M. Forster nel suo saggio su The Listener (1941). Benjamin Britten, che nel ’41 lavorava in California, lo lesse, con l’effetto naturale e immediato che dà la nostalgia per la patria e, soprattutto, per la propria regione d’origine: il Suffolk. Britten era nato a Lowestoft, Crabbe ad Aldebourgh. Un secolo e trenta miglia soltanto li separavano. O meglio li univano, perchè dal poema di Crabbe The Borough Britten trasse l’idea per l’opera Peter Grimes, rinnovando in essa, con orgoglioso entusiasmo, la sua identità di inglese (del Suffolk).
John Graham-Hall è un Grimes allucinato e calmo; immobile sulla sua sedia intona parole dolorose e profonde sulla melodia in canone degli archi, più che malinconici
A ragione si potrebbe dire che Peter Grimes è, ed era nelle intenzioni del suo autore, una «entirely English opera» (di un «entirely English composer»). E tutto è inglese anche in questa nuova riuscitissima produzione scaligera. Robin Ticciati, giovane e molto convincente alla direzione; Richard Jones per la regia; Stewart Laing per scene e costumi; John Graham-Hall è un eccellente Peter Grimes. Le altre voci, diciamolo fin d’ora, tutte all’altezza del protagonista anche sotto il profilo della recitazione.
Queste valide doti attoriali del cast (solisti e coro, essendo quest’ultimo così tanto importante nella drammaturgia dell’opera come personaggio “di massa”) sostengono un disegno registico che ha capito molto bene l’essenza del libretto (e benissimo ha capito Crabbe – forse è del Suffolk anche il regista); ha penetrato i personaggi fin nelle midolla, ha restituito nel dettaglio non solo la psicologia dei caratteri (come sempre si dice) ma la loro vita, come la si evince dal testo geniale di Montagu Slater, filtrata e rappresentata nelle vesti del postmoderno quando comincia ad essere globale negli anni ’80 e ’90; anche se nel paesello di pescatori inglesi rimane – della globalizzazione – solo l’omologazione.
Il risultato è un’azione molto agita e ricca e realistica. Ci sono anche i gabbiani che dall’alto dei cornicioni scrutano la vita del villaggio, mentre anche le case sembrano fatte di sabbia. Ed è invenzione ingegnosissima l’idea di fare dei luoghi chiusi (la Sala Civica polivalente, la capanna di Grimes e la taverna) delle strutture rialzate e dinamiche, parallelepipedi aperti e basculanti dentro il grande spazio del palco, che danno vita a scorci di un’efficacia rara e memorabile. Uno di questi è certamente la scena della seconda parte dell’atto I, quella della taverna del “Cinghiale”. Un affresco, un microcosmo condensato nello spazio ondeggiante di un tipico squallido pub di un piccolo borgo nella provincia inglese. Fuori (e in buca) è la tempesta, dentro il carnevale. Già, tutti i personaggi lì si ritrovano e ciascuno rivela, chi più chi meno, se stesso nel gruppo. Il coro fa capolino con la testa dal pavimento del proscenio e tutto è concitato. John Graham-Hall è un Grimes allucinato e calmo; immobile sulla sua sedia intona parole dolorose e profonde sulla melodia in canone degli archi, più che malinconici. Il tenore inglese interpreta benissimo l’ambiguità delle parole, forse già rassegnate. Gli altri lo credono ubriaco. E quando la situazione sembra precipitare e oramai la pettegola e spietata bigotta Mrs Sadley sta per svenire di fronte a tanta immorale gaiezza, ecco la canzone dei pescatori un po’ ciucchi, da pub allegro e rozzo. Ecco il carnevale, in cui tutti quanti insieme, all’unisono e ben coordinati si lanciano in una serie ripetuta di movimenti autisticamente sempre uguali a ritmo di ballata. Mossette rapide e volgari, un invasamento inarrestabile; fino all’arrivo di Ellen, che con Hobson porta a Peter il suo nuovo apprendista.

Dunque in generale Peter Grimes è un’opera che rispetta le voci dando estrema importanza al testo e alla sua prosodia ritmica; questo non è altro che il mezzo che Britten scelse per aderire completamente al testo da cui partiva (le epistole in versi di Crabbe). Il risultato è una tessuto drammaturgico finemente intrecciato, che è poi una magnifica partitura, una delle più apprezzate del ‘900. Ugualmente la regia è riuscita a far vivere quei caratteri in modo azzeccatissimo e totalmente coinvolgente.
John Graham-Hall, che il pubblico ricorda nella sua eccellente interpretazione di Aschenbach in Death in Venice la scorsa stagione (ruolo per il quale è stato insignito recentemente del Premio Abbiati dell’Associazione nazionale dei critici musicali), è efficace sotto ogni aspetto. Il suo timbro chiaro si unisce naturalmente al personaggio di Peter Grimes, scollato dal resto del mondo, scontroso, aspro e scostante; quando sta in società è sempre brusco e ruvido, mastica nervosamente un chewin gum, si torce le mani (per esempio nella scena d’apertura dell’inchiesta); vorrebbe urlare la sua versione del mondo, ma è drammaticamente trattenuto da un contesto al quale cerca di adeguarsi non riuscendovi. Ellen Orford (Susan Gritton) soltanto lo comprende e qui è una figura dolcissima e mite, persino gioiosa nei suoi abiti coloratissimi. La Gritton definisce molto bene il carattere materno, la femminilità e la sensibilità della donna. L’emissione a volte è faticosa, ma forse è del personaggio. Commovente il trio/quartetto della scena I dell’atto II, contrastante con la agitazione drammatica di qualche momento prima. Tutta il congegno registico è pervaso da questo spirito paesano, folkloristico capace di dipingere alla perfezione la vita di un villaggio costiero: tutto sa di marino, di mare in tempesta, di vento a raffiche, di barche, di dabbenaggine, di desolazione provinciale e triste, di superficialità sciocca. Le due nipotine di Auntie (Ida Falk Winland e Simona Mihai) sono infatti oche eccellenti. Ridono sempre sguaiate e si dimenano dondolando il fondoschiena per il borgo, cercando l’attenzione dei compaesani. In minigonna di pelle nera ’80. Le voci sono giustamente potenti, ammiccanti come quelle delle adolescenti che sono: stupide e ingenue. Bravissimo anche Ned Keene (George Von Bergen), voce baritonale snella che ben si presta al farmacista “medicone”, qui un gran buontempone: sempre divertito, ha il sorriso o il riso stampato in volto, fa gesti osceni alla bigotta Mrs Sadley per farla scandalizzare.
Meritatamente applauditi anche Christopher Purves (Capitano Balstrode), toccante nella scena finale con Ellen; Felicity Palmer (Auntie) che ha una bellissima voce “anziana”; Peter Hoare (Robert Boles); Catherine Win-Rogers (Mrs Sadley), voce scura e perfetta pettegola del paese nella sua comica taglia importante; Stephen Richardson (Hobson), basso profondo abbastanza corretto, ma omone fisicamente adatto ad interpretare il carrettiere rozzo; Christopher Gillet e Daniel Okulitch sono rispettivamente il Rev. Horace Adams e Swallow, Luca Di Gioa l’uomo di legge. Menzione d’onore pure per il coro, le cui masse sono coordinate perfettamente nei loro spostamenti sulla scena. Il côté orchestrale è egregio come il resto. Giovanissimo il direttore Robin Ticciati (già alla Scala per alcuni concerti con la Filarmonica), inglese di Londra. È sicuro nel gesto, che segue capillarmente il ritmo, rende intensa, profonda, penetrante la forma musicale degli interludi e dei momenti tragici, dà vita gioiosa e sgargiante alle scene corali e di massa. Il tempo della rappresentazione assume di conseguenza un movimento fluido e compatto e insieme minuziosamente restituito. L’orchestra risponde benissimo con volume e intensità ricchi di cromie, marine. Come il mare in risacca.
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