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Manon alla Scala. L’allestimento, già visto a New York e a Londra, offre la regia ed i costumi di Laurent Pelly e le scene di Chantal Thomas
di Francesco Gala
Q ueste impressioni sulla produzione del capolavoro di Massenet proposta ieri sera alla Scala sono raccolte sotto un titolo che evoca il sapido nome della protagonista, incontro del possessivo francese ma con la negazione non; come ci ricorda Starobinski, «ciò di cui ci si vorrebbe appropriare, ma che rifiuta di lasciarsi possedere». È questa la sintesi formale dell’oggetto dei desideri di Des Grieux, la giovane fascinosa ed infedele che è per lui un’ossessione demoniaca. Nomen omen, insomma. L’intestazione a questo scritto è però arricchita da un riferimento ai forfait e alle relative sostituzioni che hanno colorito l’attesa del ritorno dell’opera sul palcoscenico del teatro milanese.
L’ambientazione è primo novecentesca ma con tocchi retrò in certi costumi vagamente vittoriani, cui fanno da contrasto colori vivaci e modernismi che spostano in avanti l’epoca della vicenda a partire dall’atto terzo
Il plauso spetta al direttore d’orchestra Fabio Luisi, bravo a rimediare tanto agli errori del palcoscenico, quanto a cantare al posto degli interpreti nelle appassionate frasi della seduzione in convento (e non solo). Luisi ha guidato l’orchestra (non sempre irreprensibile, come nel quartetto della soffitta) dosando con gusto i colori che dipingono gli ambienti nei quali si snoda la vicenda ed evidenziando – in accordo con la regia – quel carattere mimico, gestuale che è tipico delle scene nelle quali si riconosce con maggiore evidenza lo stile opéra-comique.
Manon è Natalie Dessay, anzi è Anna Netrebko, anzi è Ermonela Jaho, la quale – scelta per la distribuzione del secondo cast – ha salvato le recite e merita un ringraziamento; ben consapevoli del fatto che influenze, allergie e malanni vari siano oggi diffusi e, per chi sappia guardare, non del tutto imprevedibili. La sua è una voce emessa di gola ed organizzata in bocca. Lì rimane, alla ricerca di uno spessore niente affatto connaturato al mezzo. Il risultato è una messe di suoni indietro che accompagnano una dizione per nulla limpida. Gli acuti sono raggiunti forzando, come evidente nella gavotte e in tutta la scena del gioco. Con questo bagaglio tecnico si fa ben poco, e certo non si può restituire al pubblico la caleidoscopica Mademoiselle Lescaut. Su altri palcoscenici, la signora canta Anna Bolena (nel ruolo eponimo).
Più ortodossa è la vocalità leggera di Matthew Polenzani alla ricerca d’intenzioni, come nell’aria del sogno; ma qui il suono si sbianca non appena tenta di avventurarsi su ‘mezze voci’ che non risultano tali perchè la voce è tutt’altro che sul fiato. Difetta di slancio lirico e di affondo (la frase «Ah Lescaut, c’est que je l’adore!» è un esempio evidente), ma trova accenti più convincenti nell’atto terzo, prima nel recitativo, poi nell’aria («Ah! fuyez, douce image», meritando un applauso a scena aperta) e, più avanti, nei versi presi in prestito da Alfred de Musset.
Una Manon ed un Des Grieux in sedicesimi, insomma, ai quali giustamente fa da scorta un Lescaut che – trovando ardua l’ascesa ai primi acuti – preferisce giocare sulla morbidezza della dichiarazione d’amore a Rosalinde (atto terzo), splendidamente accompagnata in orchestra da Luisi. Il Conte è un veterano come Jean-Philippe Lafont, dell’emissione malferma. Tra i caratteristi, insieme al terzetto delle ragazze, si distingue un valido Christophe Mortagne, nella parte di Guillot de Morfontaine, cui fa da contrappeso Bretigny.
L’allestimento, già visto a New York e a Londra, offre la regia ed i costumi di Laurent Pelly e le scene di Chantal Thomas. Il regista parigino è avvezzo al mondo dell’opéra-bouffe, avendo proposto fortunate produzioni dei capolavori di Offenbach ed approccia la Manon di Massenet portando in parte con sé La vie parisienne, con la sua demitizzante verve. I modi impacciati ed il look della fanciulla che compare tra una folla di viaggiatori ad Amiens certo ricorderanno, a qualche spettatore più smaliziato, la nostrana Ninì Tirabusciò. L’ambientazione è primo novecentesca ma con tocchi retrò in certi costumi vagamente vittoriani, cui fanno da contrasto colori vivaci e modernismi che spostano in avanti l’epoca della vicenda a partire dall’atto terzo. Le scene più riuscite, con i loro piani di traverso ed angolari, sono infatti quelle a Saint-Sulpice e presso l’Hôtel de Transylvanie, che gettano uno sguardo torvo sulla biografia della protagonista, piegando coerentemente in direzione della caduta dell’eroina. Per il resto dell’opera, Manon si trasferisce nel mondo dell’operetta, il cui referente diretto per le scene sul Cours de la Reine, è certo Anna Glavari, a vantaggio dunque del coté brillante. Questo, anche se può sembrare curioso, è un allestimento che possiede una propria coerenza ed è ben curato nella preparazione degli interpreti, ma che non si conta certo tra i più riusciti del regista (già alla Scala per L’elisir d’amore).
A Milano fa caldo e c’è la crisi. Il pubblico di turisti – componente sempre più indispensabile all’economia del teatro milanese – si rinfresca con l’aria condizionata tenendo gli occhi ben fissi sui display che rimandano il libretto dell’opera; nei palchi diversi buchi, conseguenza della defezione della diva Anna. Applausi timidi al termine dei numeri solistici, riguardosi nei confronti di una situazione delicata, che si trasformano al termine in sette minuti di battimani per salutare gli interpreti; farli sfilare tutti sul proscenio richiede tempo, mentre si odono alcuni dissensi all’indirizzo della regia.
La cultura è un bene prezioso. Mai frase è stata tanto abusata negli ultimi decenni, da quando il culto della cultura ha soppiantato la conoscenza; quella che invita tutti a considerare, quale caratteristica imprescindibile per la maturazione di ogni processo artistico, la dedizione coltivata nel tempo.
Gli ascolti riparatori proposti in questa pagina sono tutti milanesi e due, propriamente, scaligeri.
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