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Confessioni religiose, repertori e ispirazioni di vario genere riuniti nel Concerto delle Fraternità diretto da Riccardo Muti con grande successo negli ultimi giorni del Festival
di Patrizia Luppi
P ochi anni fa Riccardo Muti mi disse (per un momento mi si permetta qui di abbandonare il convenzionale “noi” giornalistico), in un’intervista per il mensile Amadeus: «Il colore della pelle degli uomini può essere diverso, ma il colore del cuore è uguale per tutti». Una frase molto bella, molto significativa, che potrebbe applicarsi a una delle più solide e durature linee programmatiche del Ravenna Festival: l’affermazione dell’uguaglianza tra gli esseri umani, la ricerca della fratellanza e della pacifica convivenza tra i più svariati tipi di cultura e di credo religioso, l’avvicinamento ai più bisognosi grazie alla potenza salvifica della musica.
Sembra troppo per un festival estivo? Sì, lo sarebbe nel caso di quelle rassegne organizzate tra giri d’agenzia e scambi di favori, o nel caso di quelle che si basano soltanto sullo sciorinio di nomi famosi e sulle occasioni mondane. Non lo è per una manifestazione come questa, che conta per la direzione artistica su un trio di teste davvero pensanti, ciascuna con interessi e competenze differenti (Cristina Mazzavillani Muti, anche presidente e vera anima del Festival, Franco Masotti e Angelo Nicastro), oltre che su uno staff agguerrito, attento e solidale. Così sono nate le edizioni aperte a ogni tipo di partecipazione dai paesi stranieri, così si sono tenuti i 16 concerti delle “Vie dell’amicizia” in luoghi oppressi da disagi di vario genere o uniti a Ravenna dal comune Mar Mediterraneo, così si è svolto quest’anno, a fine Festival, il Concerto delle Fraternità.
Vi abbiamo già avvicinato nei giorni scorsi alla macchina complessa di questa serata, salutata alla fine da un trionfale successo, che giovedì 12 luglio ha riunito nel Palazzo Mauro de André gremito, sotto la direzione di Muti, l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e la Giovanile Italiana, con il contralto Ekaterina Gubanova e con La Stagione Armonica e il Coro del Friuli Venezia Giulia diretti da Sergio Balestracci, insieme con formazioni corali delle più diverse confessioni religiose; tra questi, in particolare, i monaci di Drepung Loseling, provenienti da quel Tibet tormentato al quale il Ravenna Festival ha dedicato quest’anno un ampio spazio (il loro grande e antichissimo monastero è costretto da anni all’esilio in India dalla feroce persecuzione della Cina).

Spettacolare l’ingresso in sala degli esecutori: all’occhio si presentava, nel procedere cerimoniale dei gruppi verso il palcoscenico, un’infinita tavolozza di neri, dagli abiti da concerto degli orchestrali e dei coristi alle tonache del Coro Serbo Bizantino Mosey Petrovich, dai mantelli degli incappucciati Lamentatori di Marianopoli ai clergymen del Coro della Fraternità San Carlo Borromeo, dai costumi del Coro Ortodosso Maschile di Mosca a quelli bianco su nero dei Lamentatori Momento Domini di Mussomeli; su tutti, squillante, si stagliava il rosso e giallo dei monaci tibetani, entrati in scena sulla inconfondibile, arcana sonorità dei loro strumenti. Con loro, la monaca nepalese Ani Choying Drolma, celebre in tutto il mondo per l’incantevole qualità del suo straordinario canto, oltre che per le sue grandi benemerenze in campo umanitario.

Alla tavolozza dei colori si sovrapponeva quella delle voci. E qui, in un intervento dopo l’altro, meravigliava scoprire con quante tecniche lontanissime l’una dall’altra, raffinate nel corso dei secoli e dei millenni, la voce umana sia arrivata a esprimere l’afflato mistico e la tensione alla spiritualità. Allo stesso tempo, sorprendeva scoprire imprevedibili punti di contatto. Al cavernoso canto dei tibetani seguiva il solo del basso profondo del Coro Ortodosso di Mosca, e sembrava che non ci fosse soluzione di continuità; alle sommesse note tenute, prodigioso bordone vocale, dei serbi, sembravano ricollegarsi quelle straziate dei cantori di Mussomeli. Come se da una remota radice si fosse sviluppata una varietà impressionante di virgulti, segnati però pur sempre in qualche modo dalla memoria della loro origine comune. O come se nel profondo dell’uomo si trovassero fin dal principio alcuni modi di espressione basilari, poi arricchiti e differenziati da lunghissime stratificazioni creative.
Aperto dal saggio e affettuoso discorso dedicato al Ravenna Festival dal Dalai Lama (lo si può ascoltare sul sito del Festival www.ravennafestival.org e su YouTube), il concerto si addentrava su percorsi religiosi e spirituali anche con il programma “classico”: il Te Deum in do maggiore di Haydn, lo Schicksalslied (Canto del destino) e la Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra di Brahms, con la pregevolissima Ekaterina Gubanova. Molto intense, molto partecipate le interpretazioni di Muti, degli strumentisti delle due orchestre e dei coristi diretti da Balestracci; ma il culmine è arrivato con il mozartiano Ave Verum, eseguito a fine concerto dapprima con gli organici tradizionali, poi con tutti i partecipanti riuniti. Una pagina breve quanto sublime, dove Muti con tutti i bravissimi musicisti ha raggiunto vertici di impalpabile, soave luminosità. Uno scorcio di quel Paradiso di pacificata consapevolezza al quale tutti, credenti e agnostici, in qualche modo aspiriamo e nel quale Wolfgang Amadeus Mozart, ne siamo certi, stabilmente risiede.

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