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Tra Rimskij-Korsakov e Musorgskij-Ravel, una prova magistrale della Filarmonica di San Pietroburgo con il suo direttore principale al Ravenna Festival
di Patrizia Luppi
D alla fiera spalla Lev Klychkov – chioma leonina e notevoli qualità di solista – giù giù fino all’ultimo leggio, l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo gode di una meritatissima fama di compagine potente, compatta, duttile e preparatissima. Yuri Temirkanov la diresse per la prima volta nel 1967 e da allora non ha mai sciolto il felice sodalizio che dal 1988 lo vede nella doppia carica di direttore artistico e principale della Filarmonica.
Temirkanov dirige da sempre senza bacchetta. Con la sua gentile ma amara ironia, spesso ricorda: «quando iniziai, l’unico produttore in Russia scomparve. A quell’epoca non si trovava neppure la carta igienica, cercare altrove una bacchetta non era neppure da pensare. Mi dovetti adeguare». E fece di necessità virtù, costruendo quel suo caratteristico gesto, finemente articolato e sommamente espressivo, che ha conquistato le orchestre di tutto il mondo.
La Filarmonica di San Pietroburgo e Temirkanov, durante la tournée italiana di questi giorni, hanno fatto tappa domenica 8 al Ravenna Festival. Tra l’ouverture La grande Pasqua russa di Rimskij-Korsakov e i musorgskijani Quadri di un’esposizione trascritti da Maurice Ravel, ci si è ritrovati nel paradiso dell’orchestrazione: l’evocazione di antichi riti religiosi da parte del compositore russo e il ricordo della mostra di un amico pittore scomparso, originalmente scritta per pianoforte da Musorgskij, ispirano due partiture magistrali, dove l’impasto dei registri sonori e lo sciorinio dei colori ogni volta meravigliano e incantano.
Nonostante l’acustica del Palazzo Mauro de André (originariamente dedicato solo allo sport, ma divenuto poi abituale sede concertistica del Festival), che rimane non ottimale nonostante i notevoli interventi migliorativi, si è grandemente apprezzata la vividezza e la raffinatezza dell’interpretazione di Temirkanov, direttore sempre in grado di conciliare la massima eloquenza con l’eleganza della misura.
Le stesse qualità innervavano la prestazione orchestrale nel Concerto per violino in mi minore di Mendelssohn, posto nel cuore del programma. A tale cuore pulsante ha inflitto però un po’ di freddo la violinista giapponese Sayaka Shoji. Precoce vincitrice, a 16 anni nel 1999, del Premio Paganini di Genova, la minuta e sorridente strumentista ha mostrato la debita sicurezza e perfino spavalderia virtuosistica, una tecnica ineccepibile e un’intonazione millimetrica, ma è parsa rimanere a un’eccessiva distanza dall’ispirato lirismo che è parte fondante della magnifica composizione mendelssohniana.
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