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La Filarmonica della Scala diretta da Andrea Battistoni (con i «Quadri di una esposizione») ed il pianista Louis Lortie (secondo di Brahms), Il concerto Italiano di Rinaldo Alessandrini con Sara Mingardo e Furio Zanasi per il «Ritorno di Ulisse in patria» di Monteverdi
di Attilio Piovano
L a blasonata Filarmonica della Scala è approdata al Lingotto di Torino la sera del 17 settembre, diretta dal giovane fuoriclasse Andrea Battistoni che ha colto un vero e proprio successo personale. Successo condiviso, in prima battuta, col pianista Louis Lortie dalle dita d’acciaio e dalle sonorità possenti. Ed è quello che occorre, certo, per affrontare il difficilissimo brahmsiano «Concerto n° 2» dove spesso il pianoforte e la compagine sinfonica si fronteggiano come due entità foniche, rivaleggiando. In sala eravamo in ottima posizione, ciò nonostante lo sguardo lì per lì non è caduto sul ‘laterale’ del pianoforte. E così non ci si è accorti che, in luogo dello Steinway d’ordinanza, campeggiava sul palco un gran coda Fazioli. Con lo sguardo concentrato sulla partitura in molti abbiamo sobbalzato alle prime battute solistiche, per la potenza sonora dello strumento, per il suono corposo, oltremodo squillante, dai bassi ‘aperti’, in qualche caso perfino aggressivo, come il ruggire di un motore 12 cilindri (che però, si sa, ha una rotondità invidiabile rispetto a propulsori più ‘normali’). Ecco, il suono di Lortie, quantomeno alla tastiera del Fazioli, era così: come un 12 cilindri, corposo e sopra le righe, sicuro di sè, spavaldo, ma magnificamente rotondo. E per Brahms ci sta, ci può stare, benché taluno preferisca toni più umbratili e mezze tinte. Queste le si sono apprezzate eccome nel superbo Andante dove anche Battistoni ha cesellato ed accarezzato la pasta degli archi, distillando gli interventi dei fiati con notevole grazia. Poi il finale e si è ammirata l’enorme tenuta di Lortie. Certo, taluno in sala sottolineava l’esibizione fin troppo esplicita di un certo – come dire – atletismo a discapito dei dettagli; e in musica si sa non è solo questione di andare veloci e di mantenersi nella zona rossa del contagiri. Spesso anche le sfumature richiedono attenzione e cura… Detto questo, di una esecuzione senza dubbio coinvolgente si è trattato. E come bis Lortie ha regalato uno «Studio» chopiniano (l’op. 10 n° 4, per l’esattezza) eseguito con una vigorosa allure, bassi che ruggivano e la gragnola delle semi crome che imperversavano. Ovazioni e applausi incontenibili (per lo più meritati).
Poi è stata la volta dei «Quadri di una esposizione» di Musorgskij della quale Battistoni ha dato un’interpretazione certo magnetica ed esaltante: gesto vasto, esuberante (talora fin troppo) con vari eccessi di sonorità (percussioni che talora finivano per ‘coprire’), rivelando peraltro le qualità di un’orchestra coi fiocchi. In «Catacombae» avremmo voluto più gradazioni dinamiche per gli ottoni, certo «Baba Yaga» era davvero terrificante (ma la parte centrale è scivolata un poco via), nel «Vecchio castello» mancava il senso del tragico e dell’ossessivo…, bene le arguzie argentine dei «Pulcini» e delle «Tuileries», «Bydlo» avrebbe potuto essere ancora più pregnante ed impressivo, ma la finale «Porta di Kiev» ha spazzato i dubbi: affrontata in maniera piuttosto spigliata, non ha perso (quasi) nulla in grandiosità. Qualche esagerazione di troppo nelle ultime battute, da far tremare l’Auditorium: Battistoni è giovane ed estroverso e qualche eccesso di vitalismo (e di comprensibile protagonismo) glielo si perdona. Bis verdiano («Vespri siciliani») con sonorità immani (a tratto francamente gratuite) e forte tensione emotiva.
Tutt’altra musica, e ben altre sonorità, la sera seguente al Regio. In programma il raro «Ritorno di Ulisse in patria» di Monteverdi entro un teatro quasi gremito, popolato di esperti ed amanti del Barocco e gran parterre di critica (gradevole sorpresa molti studenti con tanto di partitura, peccato per l’assenza del libretto e dei sopra titoli: ma in molti hanno rimediato, complici le mezze luci, con tablet ed i-pad: positivo segno dei tempi). Ad interpretare il Monteverdi degli anni ‘veneziani’ un pool di specialisti avvezzi ad operazioni di altissimo livello: e si trattava del Concerto Italiano guidato dal colto e raffinato Rinaldo Alessandrini curatore di una apprezzata edizione critica. Successo personale di Sara Mingardo, che si conferma una vera fuoriclasse, un’artista a 360 gradi dalla voce calda e corposa e dalla singolare raffinatezza interpretativa, una cantante capace di spaziare dal primo barocco all’opera ottocentesca, dalla lirica da camera al grande repertorio lirico. E successo personale nel ruolo di Ulisse di Furio Zanasi che il «Ritorno» lo conosce bene per averlo eseguito nei teatri di mezzo mondo. E infatti, pur trattandosi di esecuzione non scenica, rinuncia volentieri al leggio offrendosi con sicurezza per intero a memoria. Apprezzato ed ammirato il contro tenore Andrea Arrivabene; tutte allineate su elevati standard le altre voci (impossibile citarle): meglio quelle maschili, appena un poco al di sotto quelle dei ruoli femminili dalla dizione non sempre chiara e limpida. Alessandrini impone tempi sciolti e scorrevoli ad una partitura lontana dalla sensibilità moderna: per quel suo procedere paratattico per pannelli o episodi accostati, con commovente agnitio finale.
Applausi vivissimi e un vero e proprio trionfo per tutti. A riprova che il pubblico è assai più colto e ricettivo di quanto taluno vorrebbe ammettere, e se si trova dinanzi ad esecuzioni di tal fatta reagisce comme il faut. E dire che si trattava di una esecuzione da concerto, durata sino a notte fonda. Insomma, non è vero che il pubblico desideri solo i pur sommi Rossini, Verdi o Puccini: c’è spazio anche per le origini dell’opera. Certo, a proporre tali titoli occorrono specialisti di caratura eccezionale come nel caso di Alessandrini che dal cembalo ha governato i suoi ottimi strumentisti con mano salda e gesto felice.
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