[wide]
L’opera in scena al Massimo di Palermo fino al 25 settembre nell’allestimento di Beni Montresor
di Monika Prusak
D ue drammi, uno amoroso e uno sociale, sono alla base della “tragedia giapponese” Madama Butterfly di Giacomo Puccini, di scena in questi giorni al Teatro Massimo di Palermo. Lei, giovanissima e ingenua, racconta di essere stata benestante una volta, ma oggi si guadagna la vita lavorando come geisha. Lui è americano, ricco e affascinante, ma non intende legarsi stabilmente: sfrutta infatti le leggi orientali che gli permettono di abbandonare la moglie dopo un solo mese di matrimonio. Con finto rimorso, le porterà pure via il bambino. Siamo a Nagasaki, perché all’epoca di Puccini la fascinazione dell’Oriente era particolarmente accesa, ma questa storia sarebbe potuta accadere dovunque.
Nello storico allestimento di Beni Montresor, ideato per il Teatro Carlo Felice di Genova negli anni Novanta e ripreso questo mese a Palermo, sono pochi gli oggetti che ravvivano il palcoscenico: una scalinata, la parete tipica di una casa giapponese, dei paraventi, un tavolino dove Suzuki prepara il tè, il tappeto di Cio-Cio-San nelle scene notturne. La riduzione delle scene all’essenziale non dispiace, anzi mette in risalto i costumi dal taglio tradizionale dello stesso Montresor e la vicenda dell’opera. Il gioco visivo sta tutto nello sfondo, nelle luci (di Claudio Schmid) che cangiano frequentemente di tonalità, tingendosi di blu, verde, grigio, arancio, per sprofondare in un bianco freddo o in un nero glaciale quando la situazione emotiva lo richiede, riservando al rosso il tragico finale. A questo ben si adatta la regia di Andrea Cigni che non esagera nel movimento, lasciando ai protagonisti il compito di riempire il palcoscenico con gesti ed emozioni, qualità che a tratti mancano, svelando le difficoltà di un crescendo che avrebbe potuto portare lo spettacolo a un finale di gran lunga più coinvolgente.
Madama Butterfly è una di quelle opere in cui risulta evidente la divergenza tra l’età della protagonista e la preparazione vocale necessaria per affrontare il ruolo: la parte di Cio-Cio-San richiede una voce matura e tecnicamente impeccabile per rappresentare una semplice ragazzina quindicenne. La Butterfly di Daniela Dessì è fin troppo adulta: l’eccessiva drammaticità nel primo atto risulta poco convincente nel dipingere i tratti dell’ingenuità infantile, trovando tuttavia una più giusta dimensione nel secondo atto, in cui la disperata ma orgogliosa giovane decide di togliersi la vita. La Dessì evidenzia quanto Cio-Cio-San soffra per l’amore perduto senza trascurare il terrore dell’allontanamento dalle ricchezze “americane” e del futuro ignoto: un inevitabile ritorno alla povertà. L’affascinante Pinkerton di Roberto Aronica lascia il segno più incisivo sul palcoscenico palermitano, per la sua autorevole presenza scenica e vocale, appoggiata da una recitazione disinvolta e naturale, notevole soprattutto nell’apparizione finale piena di rimorso. Ben assortita è la voce di Giovanna Lanza nel ruolo della serva Suzuki: il timbro caldo rispecchia fedelmente la bontà del personaggio. Alberto Mastromarino, nei panni del console americano Sharpless, ha peccato per un suono troppo ovattato nelle parti soliste, ma tuttavia ha contribuito all’ottima resa dei duetti, soprattutto nelle scene con Pinkerton. Merita un plauso la direzione elegante e appassionata di Marcello Mottadelli, che ha donato alla rappresentazione quel crescendo drammatico che è mancato nella resa scenica. Il gesto denso e pesante ha portato l’Orchestra del Teatro Massimo da un sublime piano a un forte imponente, ma mai gridato, delineando con particolare sensibilità timbrica i momenti salienti della partitura orientaleggiante di Puccini.
© Riproduzione riservata