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Tre autori, due atti unici e un unico titolo: Opera Migrante, in scena a Spoleto. Ne parliamo con gli autori Mario Perrotta, Lucio Gregoretti e Andrea Cera
di Monika Prusak
«Ed ecco l’opera. L’opera migrante, un po’ zingara, messa di traverso tra i generi, volutamente non schierata – sarà un’opera lirica contemporanea? Sarà teatro sperimentale con musica? A mio avviso, poco importa». Mario Perrotta
L o spettacolo va in scena in prima esecuzione assoluta il 7 settembre 2012 al Teatro del Complesso Monumentale di San Nicolò, Spoleto, sotto la bacchetta di Marco Angius che dirigerà l’ensemble strumentale dell’OT.Li.S (Orchestra del Teatro Lirico Sperimentale) e i giovani cantanti solisti Chiara Osella, Katarzyna Otczyk e Marco Rencinai. L’unico titolo, Opera Migrante, raccoglie in sé un dittico, ovvero due opere autonome e indipendenti, “Andante italiano alla belga” con le musiche originali di Lucio Gregoretti e “Fuga straniera con moto” di Andrea Cera. La messa in scena è stata affidata al regista, drammaturgo, scenografo e attore Mario Perrotta, vincitore nel 2011 del Premio Speciale Ubu per il progetto “Trilogia sull’individuo sociale”. Vogliamo iniziare proprio dalle sue parole, per continuare poi con quelle dei due compositori.
Mario Perrotta – “Opera Migrante”

Qual è l’argomento dell’Opera Migrante?
«Mi è successo spesso, dopo lo spettacolo Italiani cìncali!, di ricevere la richiesta di trattare l’argomento che ormai mi ha identificato, cioè quello dell’emigrazione italiana. Vista la presenza dei due compositori, mi sono detto perché non costruire uno spettacolo a specchio, parlando dell’emigrazione italiana e dell’immigrazione in Italia oggi, cercando di mettere in evidenza i punti di contatto tra i due fenomeni. L’argomento dell’opera è proprio questo. Nel primo atto c’è un vecchio uomo del nord-est d’Italia, un ex-minatore arricchito, come ce ne sono tantissimi ancora oggi. Egli è stato minatore in Belgio, ma non vuole ricordarlo più, quando una notizia sul giornale lo costringe a rientrare nei ricordi e sprofondarci dentro. Quest’uomo sta seduto sulla panchina di un parco pubblico, magari di Treviso o Belluno, o di una qualunque cittadina dove le panchine vengono tolte dal sindaco, perché così gli extracomunitari non vi possono dormire sopra. Di notte, invece, su quella stessa panchina, in quello stesso luogo, arriva una donna del Marocco, un’immigrata clandestina che non ha dove dormire. Anche lei trova lo stesso giornale e legge la stessa notizia del naufragio di una carretta del mare. La lettura le provoca la stessa reazione: la costringe a ricordare il suo viaggio, fatto qualche anno prima, attraverso il deserto, poi il mare, Lampedusa, e così via».
Come è strutturata l’opera? Ci sono dei ruoli parlati e dei ruoli cantati?
«Sì, siamo di scena io e Paola Roscioli, io mi chiamo Nordest come personaggio e lei si chiama Sudovest. Da attori ovviamente parliamo, quindi ci confrontiamo in scena con i cantanti. I cantanti sono tre, due di loro rivestiranno gli stessi ruoli a sere alterne, e sono in sostanza la nostra coscienza. Il Nordest si rifiuta di riportare alla memoria certi eventi, ma le voci della coscienza lo costringono a scivolarci dentro. Nel secondo atto, invece, i cantanti accompagnano i ricordi della donna, edulcorandoli in qualche modo e facendola uscire da questo incubo. Quindi ci sarà un confronto tra parlato e cantato, ma ci saranno anche dei video (di Chiara Idrusa Scrimieri, ndr), che assumono il ruolo di un ennesimo personaggio, perché danno corpo a quei pensieri che non riusciamo a raccontare né in musica né in parole. Giocando con tutti questi elementi ho cercato di capire se un’opera lirica può assumere tratti che non abbiano di stantio o museale. Nel piccolo di quest’operazione ho provato a vedere se si riesce a inventare una nuova formula dell’opera».
Questo incontro tra la lirica e il teatro contemporaneo sperimentale potrebbe costituire quindi una delle vie possibili per il futuro del teatro musicale?
«Lo spero. Per quanto uno possa lavorare sulla regia di una Tosca, una Traviata o di un Ernani, questi sono dei classici, quella è la musica e così va cantata; non c’è grande possibilità di giocarci. Invece una società dovrebbe esprimersi attraverso varie forme d’arte, dovrebbe esprimere sé stessa, e quindi bisognerebbe cominciare a rappresentare più spesso opere contemporanee. Gli autori, allo stesso tempo, dovrebbero sforzarsi di essere più accessibili al pubblico, meno oscuri e criptici. Ho tanta voglia di sperimentare, di cambiare, di verificare sul campo se è possibile rinnovare: è una sfida interessante».
Come sarà organizzato lo spazio scenico dell’Opera Migrante?
«Sarà molto vuoto. Ci sarà solo quella panchina, al centro. È però una panchina particolare, che a un certo punto si alzerà come l’ascensore della miniera. Nel secondo atto si alzerà dall’altra parte e si trasformerà nei cancelli della frontiera, che bisogna superare prima di poter partire dalla Tunisia per Lampedusa. Ci sarà solo la panchina, al centro di un’isoletta di sabbia, come a dire, una sorta di non-luogo, perché nel testo entrambi i personaggi ne reclamano la proprietà. Il vecchio dice “la panchina è mia, perché pago più tasse di tutti in questo paese, quindi questa panchina l’ho pagata io”, la donna marocchina, invece, la considera sua, perché ci dorme. Non mi interessava costruire una scenografia realistica o naturalistica, sarebbe stato fuori luogo. È un luogo simbolico, un luogo dell’anima; è una panchina sulla quale nessuno dei due personaggi sta comodo».
Perché ha deciso di occuparsi del teatro socialmente impegnato?
«Parto da un’altra premessa: il teatro deve essere necessario, innanzitutto a chi lo fa. Devi capire quali sono i nervi scoperti, le ferite urticanti della tua anima, e tentare di colmarle e di lenirle. Se sei un buon uomo di teatro lo renderai necessario a chi ti guarda. In questo modo stai facendo un teatro civile, cioè stai incidendo con il tuo operato nella società. Non ho mai accettato la distinzione tra il teatro civile e l’altro teatro. Il teatro è civile di suo nel momento in cui è indispensabile, perché provoca reazioni, provoca domande. Per cui il mio teatro è civile in quanto è necessario, a me stesso in primo luogo. Poi se riesco a renderlo necessario per il pubblico lo lascio dire agli spettatori».
Lucio Gregoretti – “Andante italiano alla belga”

Quali sono state le sue scelte compositive per la stesura dell’”Andante italiano alla belga”?
«Opera Migrante ha una struttura molto particolare, la cui peculiarità principale sta nell’organico vocale costituito da due cantanti e un attore, che creano un confronto tra recitazione e canto. Vi è in realtà un solo personaggio, un ex-emigrante e la sua coscienza, divisa tra le voci di mezzosoprano e tenore. Questo protagonista è un signore anziano del nord Italia, che da giovane ha lavorato in condizioni disastrate in una miniera belga. Il nucleo dal quale parte il lavoro è il fatto che, secondo le ricerche di Perrotta, le persone oggi anziane, che sono state in gioventù emigranti per disperazione, sono le persone più razziste e più intolleranti nei confronti di chi oggi in Italia si trova nelle loro condizioni passate. Il protagonista è un personaggio negativo in tutti i momenti del libretto, che, anche quando ci racconta di quanto ha sofferto, non riesce a farci soffrire insieme a lui. Ho deciso di accentuare il suo aspetto negativo attraverso il contrasto tra la recitazione e il canto, come se gli interventi recitati dell’attore fossero sempre delle interruzioni brusche, delle violenze contro il canto, contro la coscienza; ho cercato di scrivere una musica che comunicasse un senso di disagio. Il testo si divide in due momenti principali: nella parte introduttiva il personaggio passeggia di domenica mattina in un parco e maltratta un immigrato africano, quando le voci della coscienza lo spingono a rievocare il proprio passato; successivamente l’azione si sposta idealmente nel fondo della miniera. Mentre l’introduzione ha un andamento più “pacifico”, quando ci spostiamo sotto terra la musica diventa più cupa, direi claustrofobica, con l’idea di trasmettere una forte sensazione di malessere».
Qual è l’organico strumentale?
«L’organico è costituito da due percussionisti, una tastiera elettronica e un quartetto d’archi. Ho lavorato molto sulle percussioni e sul rapporto delle percussioni con il quartetto. Partendo da un ragionamento che stiamo mettendo in scena una contraddizione, ho cercato di creare dei contrari musicali, per cui spesso gli archi che sono tradizionalmente degli strumenti delicati, sono usati in maniera assolutamente ritmica e aggressiva rispetto alle percussioni, che usano sonorità più delicate. Lo stesso accade per le due voci, spesso il tenore è tenuto in un registro molto più acuto rispetto al mezzosoprano per creare un equilibrio artificiale. Ho usato un nastro, sul quale sono registrati diversi suoni, ma ho anche impiegato uno strumento di misurazione scientifica che si chiama geofono, che vuole imitare i suoni delle profondità terrestri, anche lontanissimi, che qui sono stati elaborati elettronicamente. I cantanti si muovono sulle linee melodiche brevi, che possono somigliare a una scrittura contrappuntistica, quasi imitativa. Ma i frammenti non si sviluppano mai appieno, proprio perché vengono continuamente interrotti dall’attore. Come se la coscienza, il “bene”, fosse sempre frustrata e messa a tacere dal “male”».
Cosa ne pensa dell’incontro tra il teatro contemporaneo sperimentale e la lirica?
«È un incontro che andrebbe approfondito. Non è che non sia stato mai affrontato in passato, però certo è un settore che può avere degli sviluppi, anche molto positivi. Sarebbe utile, soprattutto, apprendere dal mondo della prosa la capacità di allestimenti piccoli, tralasciare tutto quello che è la grandiosità dell’opera, arrivare a un teatro musicale da camera che integri gli aspetti della prosa».
Quanto ritiene importante l’impegno sociale del teatro musicale?
«Lo ritengo senz’altro importante, anche se nello specifico non so se il personaggio dell’opera sia da condannare a tutti i costi. Il bello del lavoro di comporre per il teatro è quello di cercare di far passare il messaggio, poi che lo si condivida o no è, paradossalmente, quasi secondario. Ho cercato di dipingere il personaggio così come l’autore del testo l’aveva inteso. Per quanto riguarda il teatro musicale, credo che possa fare riflettere lo spettatore molto di più che quello di prosa. Avendo lavorato sia come compositore per il teatro di prosa che per il teatro d’opera, ho visto che il pubblico del teatro d’opera capisce molto meglio quello che gli si vuole trasmettere. Può essere un pubblico vecchio, può non condividere quello che gli si dice, ma capisce perfettamente il linguaggio. Questo non capita sempre per il teatro di prosa, il cui pubblico è un po’ più casuale. Sarebbe molto importante, secondo me, proporre al pubblico della lirica delle cose che contengano dei messaggi anche più impegnati».
Andrea Cera – “Fuga straniera con moto”

Quali sono state le sue scelte compositive per la “Fuga straniera con moto”?
«In questo progetto il testo è la dimensione più importante. Questo fatto mi ha portato a sperimentare un modo di scrivere al servizio delle parole. Prima di tutto vengono l’attrice e i due cantanti. Il resto della composizione, archi, percussioni, pianoforte, elettronica, a volte funziona a come un organismo dialogante, a volte crea lo spazio di fondo, e in qualche punto diventa un quarto personaggio che tende a sovrastare il primo piano. A differenza di come lavoro di solito, qui ho cominciato con lo scrivere solamente la parte vocale, senza sapere cosa avrei fatto dopo, focalizzandomi sulla comprensibilità delle parti cantate. Solo in un secondo momento ho cominciato ad aggiungere gli strumenti, usando le parti scritte in precedenza come un oggetto indipendente, al cui interno cercare indizi da sviluppare. L’uso dell’elettronica è in questo caso molto semplice: sono dei file audio suonati in corrispondenza di certi punti della partitura. Alcuni file servono da complemento alla struttura sonora dell’orchestra, altri, invece, hanno un ruolo cruciale. C’è un punto dove la protagonista arriva alla frontiera innanzi a una guardia: l’elettronica imita letteralmente il cancello, un cancello chiuso che non vuole aprirsi. Ci sono dei momenti molto forti, a volte spaventosi come quello in cui la protagonista sta per annegare durante la traversata. Ho inserito un file di base molto lungo che è una sorta di esplorazione delle sonorità acquatiche. In realtà non c’è nessun campionamento d’acqua, ma sono suoni completamente diversi, alcuni molto surreali».
Le voci liriche hanno un ruolo insolito nell’Opera Migrante, ovvero quello della coscienza dei due protagonisti. Come questo si traduce in suoni?
«L’accostamento tra parola cantata e parola recitata crea già un grande scarto, che è la parte più interessante e rischiosa di questa sperimentazione. Per me questa sfida si è risolta nel cercare di liberare la scrittura vocale da qualsiasi spinta autonoma, tenendola saldamente ancorata al testo, agli accenti e alla pronuncia. Stranamente ho trovato che certe strutture di derivazione pop si adattano piuttosto bene a questo scopo. In questo lavoro abbiamo lavorato molto da vicino io e Mario Perrotta. La grande difficoltà è di riuscire a render ben comprensibile la parte cantata, che deve essere chiara tanto quanto il parlato. I profili melodici, quindi, le altezze, devono obbedire a questo principio e non a scelte musicali autonome. Anche se in un punto, ad esempio, sembra adatto un melisma di mezzosoprano, non lo inserisco, perché ucciderebbe la comprensione del testo. La mia è una specie di scrittura cantautorale. Dal punto di vista armonico, dei rapporti tra le altezze, ho cercato di restare in un ambito diatonico. Queste strutture si ritrovano appunto nel pop, che spesso è fatto di strutture melodiche semplicissime. I solisti, ovviamente, sono abituati ad avere un’impostazione classica della voce, ma un giorno, mentre eravamo in pausa durante le prove, è successa una cosa interessante. I due cantanti stavano ripassando una cosa tra di loro, sotto voce, e gli ho fatto notare che era proprio questo il modo giusto per cantare l’opera, almeno in alcune parti. Non essendoci una grande orchestra sotto, loro possono cercare un suono più contenuto, che permette la migliore comprensione del testo».
Quali difficoltà possono nascere da un incontro come questo, tra il teatro contemporaneo sperimentale e la lirica?
«La difficoltà è soprattutto relativa alla coesistenza di due paradigmi sociali diversi. Il ruolo di un musicista nel teatro e il ruolo di un musicista d’opera sono completamente diversi. Cambia il modo di intendere la partitura, l’improvvisazione, la plasticità delle strutture temporali, ma cambiano anche le gerarchie di potere all’interno di quella complessa macchina che è il teatro. Un progetto come questo sembra rispecchiare certe problematiche relative alla società contemporanea: modi di produzione diversi, filosofie del lavoro opposte, paradigmi sociali apparentemente inconciliabili che si trovano in conflitto. Da parte mia, ho cercato di creare una partitura che fosse abbastanza malleabile da permettere all’attrice di recitare liberamente, ma anche abbastanza definita e scolpita tale da risultare una sfida interessante dal punto di vista musicale».
È quindi importante l’impegno sociale del teatro musicale?
Come si intuisce dalla risposta precedente, secondo me l’arte è sempre ed inevitabilmente uno specchio di quanto accade nel mondo. Per il solo fatto di proporre delle soluzioni creative e sperimentali ai problemi che la costituiscono, diventa uno strumento di evoluzione della società, a patto che si abbia la pazienza di leggere tra le righe e di non aspettarsi un contenuto immediatamente e semplicemente digeribile.
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