Un raffinatissimo concerto, con un programma dedicato in prevalenza alla musica di area francese, ha aperto al Lingotto di Torino la stagione dell’Unione Musicale, nella stessa giornata in cui si inaugurava nel cuore del Parco del Valentino la grande mostra “Degas-capolavori dal Musée d’Orsay”
di Attilio Piovano
T orino ieri, mercoledì 17 ottobre, pareva davvero Parigi. Non già per il clima autunnale e i “cieli bigi” di pucciniana memoria (sulle sponde del Po si comincia a sentire odore di caminetti coi primi freddi pungenti), quanto per il vero e proprio bagno di cultura francese, e non solo musicale. La mattina, presso la bella Palazzina della Promotrice di Belle Arti nel cuore del (molto parigino) Parco del Valentino, affollata conferenza stampa di presentazione della vasta mostra antologica dedicata dal comune del capoluogo subalpino a 80 capolavori di Degas (provenienti dal Musée d’Orsay, sino a fine gennaio 2013, curatore Xavier Rey). Parecchi gli olii di soggetto musicale – il padre di Degas, raffinato estimatore d’arte, era anche colto amateur di classica – e fa un certo effetto trovarsi poi, pur nella calca del vernissage pomeridiano, davanti a tele come il noto Violoncellista Pilet, o l’ancor più emozionante (e celeberrima) Orchestra dell’Opéra con quell’inconsueto “taglio” quasi da web camera, il fagottista in primo piano (lo stesso Pilet di scorcio) e le vaporose ballerine, protagoniste di tanti altri dipinti, fra cui Fin d’arabesque, che è titolo musicalissimo (e come pure di vari bronzi di soggetto coreutico). Gli anni sono quelli ’70-’80 dell’800. Il 1884 – per dire – è l’anno in cui César Franck compone il pianistico Preludio, Corale e Fuga; l’impressionista Debussy (ma è etichetta riduttiva e stereotipa) ha esattamente 22 anni ed i sommi pianistici Préludes sono ancora di là da venire; quando li compone, tra il 1909 ed il 1912, soggiacendo ad una quantità di stimoli culturali di gusto sinestesico, tra cui le sollecitazioni provenienti dal simbolismo letterario, l’impressionista Degas (ma ancora è etichetta riduttiva) sta per giungere al capolinea: ormai al termine della propria parabola, quasi completamente cieco, si spegne infatti nel 1917.

E allora che emozione lasciare il frastuono del vernissage e dribblare il traffico per correre al Lingotto, ormai al tramonto di questa giornata “parigina”, e immergersi nel magico silenzio che precede ogni concerto di Radu Lupu, il grande e raffinato Radu Lupu, l’antidivo per eccellenza, ascetico e metafisico: che non concede interviste a nessuno, a riprova del suo riserbo proverbiale e del suo aristocratico esprit, tutto proteso sull’interiorità delle interpretazioni. Radu Lupu che di fatto proprio nel segno di père Franck e del superbo Preludio, Corale e Fuga, preceduto dai sublimi 4 schubertiani Improvvisi op. 142, apre il suo straordinario recital, inaugurando la stagione 2012/2013 dell’Unione Musicale. E subito in Franck si sprigiona quella tenerezza malinconica che della pagina è la cifra prevalente. Ed è il si minore dell’Incompiuta di Schubert, viene da pensare, ed è Lupu a suggerirlo, riannodando le fila con Schubert, appunto, evidenziando certi giri modulanti, una vera lezione di stile. Quel momento magico di trapasso dalla prima parte preludiante al sommesso e dolcissimo Corale; e che chiarezza nella Fuga, interpretata con sonorità bellissime, un controllo del suono che ha del prodigioso, ogni nota il suo peso e il suo colore, non una sola sbavatura, niente enfasi a ricordare che Franck era principalmente un organista; e dire che la pagina ad altri suggerisce sonorità di ripieni ed ance. Lupu differenzia sì i piani timbrici, come se disponesse di mille registri, ma nel contempo pone in rilievo i nessi ad esempio con la franckiana Sinfonia e così pure con certe pagine cameristiche, occhieggiando qua e là a Schumann, ma il tutto con estrema sobrietà e misura, rifuggendo da plateali fortissimi e anche dove il suono è corposo mantiene una dolcezza ed una rotondità incredibili, grazie anche alla sua specialissima postura che lo induce ad un attacco del tasto sempre morbido e charmant, raggiungendo vette per lo più inarrivabili da parte di altri. Quanta poesia e quanto intimismo. Un amico nell’intervallo – giustamente – affermava che l’interpretazione di Lupu pareva evocare atmosfere misteriose, notturne e ultraterrene, e gli pareva di intravedere l’arcano dell’Isola dei morti di Böcklin; viene in mente anche che il brano di Franck, oggi così raro in sala da concerto, venne utilizzato da Visconti in quel film raffinato, inquietante ed allusivo che fu Vaghe stelle dell’Orsa.
Più nulla di terrestre e di carnale, nessun afrore mediterraneo, solo l’essenza dei suoni che svaporano e il ritmo implacabile a far da impalcatura
Poi è la volta di Debussy, il Debussy per così dire più esoterico, più smaterializzato, quello del Secondo libro dei Préludes: scelta niente affatto casuale. E già nei pallori di Brouillard Lupu pare suonare direttamente sulle corde, sfiorate con tocco metafisico. Ci fa dimenticare che il pianoforte (da altri interpreti odierni massacrato in maniera volgare) è pur sempre uno strumento a corde percosse. Evoca le atmosfere alonate dell’ultimo Degas, e così pure accade in Feuilles mortes: tutto è smaterializzato, come depurato in un’astrazione sonora suprema. Anche il folklore della Puerta del vino e quel basso di habanera così incisivo appaiono come sublimati, decontestualizzati, più nulla di terrestre e di carnale, nessun afrore mediterraneo, solo l’essenza dei suoni che svaporano e il ritmo implacabile a far da impalcatura. E l’astrazione sonora raggiunge il clou nelle Terze alternate (il n° 11), che già preconizzano l’estremo approdo delle sublimi Études, e ancora è Radu Lupu a suggerire il nesso. E la volubile leggiadria delle Fate, danzatrici squisite (n° 4), leggere e diafane come le tele di Degas, ancora Lupu pare bypassare il medium meccanico della tastiera, la mestizia affettuosa del n° 5 (Bruyères) e pare ricordare la Ragazza dai capelli di lino del primo libro, con quell’eco medievaleggiante e quel tocco di preraffaellitismo…
Anche nelle pagine dove verrebbe da abbandonarsi un poco, per dire l’ironia smagata di Pickwick o la bonaria e fatua eccentricità di General Lavine, Lupu non concede nulla all’effettismo, mantenendo un’eleganza di fondo che seduce incatenando alla poltrona l’intera sala gremita. E ancora rarefazioni ed estenuazioni timbriche nella Terrasse imbevuta dal lucore selenico, l’arcaismo di Canope, suonato come se il pianoforte fosse un’arpa eolia, e da ultimo la poeticissima immagine della Marseillaise, in chiusura di Feux d’artifice dove altri sparano cartucce sonore e luminescenti compiacendo il gusto del pubblico. Lui no, fa comprendere come qui Debussy sia già oltre, oltre la sua epoca, oltre la materia sonora. E anche l’unico bis è scelto con cura: Des pas sur la neige, dal Primo libro, mai sentito così diafano e raggelato, così simbolista, con quel ritmo giambico ossessivamente insistito, al termine di un percorso che s’era inaugurato con la tenerezza affettuosa di Schubert, quegli accenni a ritmi di danza, qua e là e la bellezza dell’op. 142 n° 2, appena increspata, le variazioni del n° 3 dalle superfici perlacee e la danza di elfi dell’ultimo Improvviso, una danza di elfi percorsa da sinistri bagliori, trasalimenti e avvisaglie preimpressionistiche. Sicché si può rileggere à rebours l’intera serata. È ormai notte fonda, le parole di commento in sala sono il corollario mondano (e inutile) che vorremmo evitare, Lupu lo aborrirebbe drammaticamente… e allora meglio fuggire e ripassare dinanzi alla Promotrice, ormai immersa nel silenzio umido del parco del Valentino, a custodire i capolavori di Degas, in chiusura di una giornata davvero indimenticabile.
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