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Opera • Una regia controversa, premiata e fischiata, dell’opera di Bellini è stata proposta a Brescia e in altre città del Circuito Lirico Lombardo: l’idea su cui si basa è lo spostamento della vicenda dalla Verona del XIII secolo alla Muntenia di inizio Novecento
di Elena Filini
I eri Verona, oggi le campagne della Muntenia. Dove adolescenti infelici e paffuti vengono avviati all’amore attraverso lo stupro, dove le donne sono ancora e sempre merce di scambio. E gli uomini passano, senza soluzione di continuità, dal coltello alla bottiglia. In una comunità rom di inizio Novecento Gipsy Giulietta è contesa tra Romeo e Tebaldo. La scena si leva sull’addio al celibato di quest’ultimo: un tavolaccio enorme con sgabelli, sedie, un cervo rituale sul soffitto che si dissangua in una pozza rossa e i Capuleti che, annoiati ed eccitati, si distraggono con una violenza sessuale di gruppo, dove ognuno deve dimostrare le proprie qualità e gli altri scommettono sul migliore. Così, preceduta dal molto rumore intorno al nome di Sam Brown, va in scena la prima di Capuleti e Montecchi venerdì al Teatro Grande di Brescia. La regia fa parlare di sé già dal debutto di Como e Cremona: vincitrice dell’European directing Prize 2011, indubbiamente controversa, plurifischiata negli altri teatri del Circuito, ma forse non del tutto a ragione.
La scena, fissa, rappresenta lo stanzone della festa, dove troneggia il ritratto di due giovani sposi rom. La carta da parati, le sedie, i costumi e le luci sono davvero efficaci nel creare questo stile disadorno, ma non privo di poesia. Se il primo atto ha più d’un momento improbabile, il secondo è invece risolto con molta ispirazione: il vertice è senza dubbio il toccante funerale di Giulietta, la deposizione dei fiori e delle candele. L’impianto dunque non è di trascurabile valore. Il regista inglese parte infatti da un’intuizione interessante: le logiche del clan non cambiano, sia che le si ammanti di sfarzosi costumi rinascimentali, sia che le si vesta di chiassosi completi da festa balcanici. Ed è inutile isolare la poesia dell’amore e tacere l’enorme sopruso che certe storie celano, la brutale tratta di corpi e potere che oppone Capuleti e Montecchi. Tuttavia è la traduzione in atto dell’idea il vero vulnus della messa in scena. Diremo un’ovvietà, ma il problema di questa regia è, appunto, la regia. La prima grande perplessità è suscitata dall’uso non funzionale della violenza: non un accenno nel testo, non un rigo musicale giustificano lo stupro iniziale, il tentativo di aggressione di Romeo a Giulietta nel finale del I atto e l’omicidio di Capellio da parte di Tebaldo aiutato da Lorenzo.
Poi c’è la questione della corrispondenza testuale: può addirittura non essere un problema che Tebaldo proponga il suo cantabile («L’amo tanto, a me è si cara…») mentre sgozza la malcapitata di turno, ma che Capellio ingiunga di seguire i passi di Lorenzo e le tracce di Romeo quando è totalmente solo in scena o che Giulietta dia fuoco alle carte mentre nell’accompagnato declama «Ardo, una vampa, un foco» entrano di diritto nell’evitabili ingenuità. La vera debolezza di questa visione è insomma il mestiere. Inevitabile dunque che la parte più problematica risultino le scene d’insieme: il coro maschile, diviso tra Capuleti e Montecchi, ingaggia una battaglia che è davvero lasciata all’estro del singolo, con esiti talvolta esilaranti ed un corredo di facce torve, bastoni levati e grugniti alla Flinstones.
Spiazzati da una regia che ha poche corrispondenze con la partitura belliniana, i giovani cantanti riescono tuttavia a costruire una prova credibile. Damiana Mizzi va in scena dopo l’annuncio della sua indisposizione e tuttavia dimostra di essere stata scelta con giudizio per il ruolo di Giulietta. La voce non è grandissima ma è morbida, uguale, sonora la prima ottava, e soprattutto l’attitudine è quella della belcantista. Di Giulietta ci restituisce (grazie ad un buon dominio tecnico) la fragilità, la giovinezza, i palpiti. Florentina Soare è un Romeo di indubbio interesse vocale. Sopranile come il ruolo richiederebbe (non bisogna dimenticare che Bellini scrisse per Giuditta Grisi, un’interprete che poteva passare da Norma a Romeo nel giro di una recita), è però scenicamente un po’ sopra le righe e risulta disorganizzata nell’emissione delle note di petto. Anche la distribuzione delle energie deve essere meglio amministrata durante i due atti: una minore impetuosità nel registro acuto durante la prima parte metterà al riparo sostegno ed intonazione nel finale. Fabrizio Paesano è un Tebaldo affidabile e preciso che tuttavia non possiede al momento ampiezza e morbidezza ideali per il repertorio belliniano; physique du rôle e voce in sintonia col personaggio per il Capellio di Alessandro Spina. Prova inferiore agli standard (ad eccezione degli scelti nel II atto) per il Coro del Circuito Lirico diretto da Salvatore Sciammetta (che però andava in scena con il nuovo direttore dopo un breve assestamento soltanto); convincente la buca, grazie all’efficace concertazione di Giuseppe La Malfa.•
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Seguo il coro AsliCo da alcuni anni e ho assistito a molte rappresentazioni. Accetto l’obiezione che il gruppo cambia: è fisiologico, non trattandosi di un coro di stabili. Ma che le parole sottendano un’accusa al preparatore mi sembra veramente forzare il senso della recensione.Semplicemente, la compagine corale mi è parsa meno compatta e puntuale che in altre occasioni (Cappello di Paglia di Firenze in primis, visto lo scorso anno proprio a Brescia). Spiace inoltre che quella che doveva essere una giustificazione (la breve prova con il nuovo concertatore) sia stata interpretata come un’ennesima critica al preparatore. Quanto a Sam Brown: sulla regia si sono fatte molte osservazioni. Trovo però davvero poco avvertita questa stoccata da parte di un collega che ne ha condiviso lavoro e produzione.