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Opera • Il titolo mozartiano, emblema di uno dei maggiori miti dell’Occidente moderno, in scena a Genova con la regia di Elisabetta Courir
di Ilaria Badino
S ’è verificato quel che si temeva quando si ebbe modo di saggiare l’allestimento di Don Giovanni creato da Elisabetta Courir per il palcoscenico estivo del Priamàr a Savona: i pochi elementi scenici e i non originalissimi movimenti dei protagonisti non sono stati in grado di riempire i vasti spazi del teatro lirico di Genova. In tempo di crisi, una soluzione come quella della regista bolognese è tutt’altro che disprezzabile: il low-cost, difatti, è diventato quasi un obbligo morale. Ma sempre che si riesca ad estrinsecare l’essenza dell’opera in questione; in questo caso si aveva l’ingrato compito di rendere a tuttotondo la manifestazione artistica più alta riguardante uno dei maggiori miti dell’Occidente moderno – per esso imprescindibile come per Faust lo è il poema di Goethe –, e non ci si è riusciti in modo compiuto. Alcune idee, in realtà, erano tutt’altro che disprezzabili: il mantello nero che il libertino indossa nella scena iniziale, che funge contemporaneamente anche da lenzuolo – simbolo della notte in cui si svolge il tentativo di stupro e del luogo in cui questo avviene, ossia il letto – e che lo lega a Donna Anna; gli elementi verticali che fungono e da porte e da bare, ponendo l’accento su due fondamentali tematiche affrontate nell’opera, ossia il nascondimento/fuga e, ça va sans dire, il presagio di morte; Leporello che tira fuori da una botola, come conigli dal cilindro, gli invitati al festino di Don Giovanni già bell’e che ubriachi mentre gli fa il resumé di come li abbia lui stesso conciati così, secondo disposizioni. Ma pare, appunto, troppo poco.
Le cose andavano meglio sul versante prettamente vocale. Un plauso incondizionato va al giovane Paolo Fanale, la cui caratterizzazione dell’aristocratico Don Ottavio aiutava il personaggio ad uscire dal cliché, pur ingenerato ed avallato da grandi pensatori quali E.T.A. Hoffmann e Pierre-Jean Jouve, del damerino smidollato: il tenore palermitano, infatti, è dotato di nobile timbro, di notevole charme nell’arte del porgere ed è capace di lunghissimi fiati nelle note acute, nonché di fascinose bruniture in quelle gravi. Sua degna partner era Jessica Pratt quale Donna Anna; se l’esordio e l’«Or sai chi l’onore» hanno difettato un poco di mordente, il soprano australiano s’è disimpegnato ottimamente con il resto della parte, arrivando a toccare il vertice, com’era lecito aspettarsi da una belcantista come lei, nel rondò «Non mi dir, bell’idol mio», in cui il controllo della coloratura ed i crescendo sono stati perfetti. Temperamentosa il giusto l’Elvira di Sonia Ganassi, che della dama di Burgos è riuscita a sfaccettare i mutevoli stati d’animo di donna furiosa per l’abbandono, dolente per la consapevolezza dell’inutilità della propria missione e redenta nell’esercizio della pietà; il timbro è vellutato e pastoso, ma si notano una certa morchiosità nelle agilità ed acuti un poco fissi. Francesco Verna tratteggia un buon Masetto, mentre Vassiliki Karayanni è una Zerlina scolastica (fatica in una scrittura tutt’altro che impervia, molti suoni risultano intubati ed il fraseggio legato: questo sconosciuto). L’immarcescibile Luigi Roni era il Commendatore, mentre Maurizio Muraro, che s’era abituati a sentire in parti di caratterista, riserva piacevoli sorprese quale Leporello, che ritrae sapidamente attraverso la propria voce corpulenta. Don Giovanni era impersonato da Andrea Concetti, artista di buona volontà ma cui mancano sia il phisique-du-rôle che un timbro lussureggiantemente ricco alla D’Arcangelo o levigatamente seducente alla Mattei; inoltre, è in palese difficoltà nell’orgiastica «Fin ch’han dal vino». Possono essere forse messe in conto la stanchezza e la rilassatezza che talvolta caratterizzano l’ultima recita, le quali sembrano aleggiare anche sull’Orchestra del Carlo Felice diretta da Giovanni Di Stefano, piuttosto svogliata e parca di ricerche coloristiche.
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Ancora una volta una tra le opere più eseguite della storia si rivela un osso duro per le scelte registiche ….
Dal lato vocale vedendo l’allestimento di Savona trovo che Alberghini tratteggi la parte del protagonista esaltandone maggiormente il lato vocale “ibrido” di basso-baritono con brillanti acuti ma conservando comunque il colore del basso.
Non posso esimermi comunque dal notare la dovizia di particolari denotanti una precisione veramente apprezzabile con cui è stato realizzato questo articolo !
Quindi porgo i miei più sentiti complimenti all’autrice !!!
Nicholas tagliatini