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Opera • La nuova stagione del Teatro Massimo si è inaugurata con la prima parte del “Ring des Nibelungen”, che sarà rappresentato integralmente nel corso del 2013. In “Rheingold” si sono apprezzate la regia di Graham Vick, la direzione di Pietari Inkinen e una compagnia di canto di prim’ordine
di Monika Prusak
U n’inaugurazione degna del bicentenario wagneriano, quella del Teatro Massimo, che apre la stagione con L’oro del Reno, il Prologo della saga scenica L’anello del Nibelungo, le cui tre giornate successive verranno rappresentate nell’arco del 2013. Per la prima volta il teatro palermitano produce un nuovo allestimento della tetralogia wagneriana in un’unica stagione, con artisti di spicco tra i quali Graham Vick alla regia e Pietari Inkinen alla direzione.
La composizione dell’Anello del Nibelungo impegnò Wagner per circa venticinque anni (più di cinque anni per i soli libretti). Oltre alla tetralogia, il compositore tedesco scrisse alcuni saggi e trattati che definiscono con chiarezza i cambiamenti nella sua visione del teatro musicale. Tra le pagine di Opera e dramma (1851), L’opera d’arte dell’avvenire (1859) e L’arte e la rivoluzione (1849) si trovano preziose indicazioni sulle sue idee: sul nuovo significato rivoluzionario della musica, sulla tragedia come un incontro spirituale partecipato dalla comunità (il ritorno al teatro greco), ma anche sulla condanna del progresso industriale e sulla necessità di purificare la società manipolata e corrotta. Lo spettacolo teatrale di Wagner voleva diventare un rito e il teatro stesso un tempio in cui gli spettatori, vestiti di bianco, potessero partecipare attivamente alla cerimonia.
Graham Vick presenta a Palermo una lettura coraggiosa e originale dell’Oro del Reno, aprendo così a una visione contemporanea degli argomenti mitologici, che ben rispecchia i tempi attuali, estrosi e volgari, ove ogni prova di riflessione viene sconfitta dalla frettolosa corsa dietro vuoti obiettivi legati al potere e alla ricchezza. Sono vie inedite di interpretazione, anche rischiose, che da un lato mostrano quanto poco, nonostante il progresso tecnologico e industriale, la società si sia evoluta a livello intellettuale, ma dall’altro sembrano allontanarsi apparentemente dai “veri” contenuti dell’opera, in questo caso dal mondo della mitologia germanica, abitato da dei, gnomi ed elfi. È inevitabile che qualcuno ne rimanga deluso, insoddisfatto, e non si sforzi nemmeno di entrare nella complessa idea registica, o, al contrario, rifletta su quello che si svolge sul palcoscenico, sull’attualità della composizione e dei suoi contenuti a distanza di quasi centoquaranta anni dalla prima rappresentazione.
Sono numerose le trovate geniali che Vick propone in questa produzione, ma alcune idee sfociano nel kitsch o rimangono incomprensibili, come la generale visione della donna facile e volgare, sia essa Figlia del Reno o Erda, dea della Terra. Il sacro viene totalmente deriso e l’amore prende l’unica scia possibile della lussuria: le giovani Ondine – studentesse sconce – si tolgono le mutande in scena giocando con il nano Alberico, la dea Erda appare come una diva adoperando nei confronti di Wotan una tecnica di seduzione sfrenata e disinibita, mentre la moglie di Wotan, Fricka, sembra una “casalinga disperata”. L’unica ad avere un aspetto differente, che si esprime anche nel costume e nella pettinatura, è Freia, dea dell’amore e sorella di Fricka, ma il suo personaggio rimane comunque nell’ombra di altre protagoniste femminili. Non si comprende lo sfondo con i girasoli della seconda e della quarta scena, un pannello di carta dalle dimensioni ridotte tanto da coprire solo una piccola parte delle quinte. Appare banale l’uso delle sedie, degli impermeabili e degli ombrelli trasparenti per rappresentare i diversi stati del Reno, dalla quiete all’agitazione, e ancora di più l’ombrello colorato che dovrebbe simboleggiare un arcobaleno. È, invece, del tutto eccezionale il fatto di rappresentare gli dei in sedia a rotelle, una trovata che ne mette in risalto il lato grottesco e ne fa intuire la futura sconfitta.
Vick mette in scena un numeroso gruppo di mimi che, vestiti inizialmente in borghese, servono da macchina che muove il Reno, ma nelle scene successive si trasformano nel popolo dei Nibelunghi, schiavizzati da Alberico per la ricerca dell’oro. Ma non c’è nessun Nibelheim, soltanto interni di una banca o della borsa, dove i lavoratori, vestiti in uniformi grigie e nere, lavorano al computer sotto stress, sniffando cocaina e svenendo dalla stanchezza. È un’immagine suggestiva quella della folla forzata a lavorare senza riposarsi mai, che riporta alla mente le crude immagini contemporanee dei paesi orientali o, andando indietro nella storia, la sottomissione più totale della massa a un individuo carismatico e folle. Un grande ascensore vetrato al centro del palcoscenico aiuta bene la resa del sotterraneo, al quale Alberico accede nella prima scena attraverso la buca del suggeritore. Dei simboli “antichi” rimangono soltanto due, l’anello e l’elmo prodigioso che rende invisibili, che Alberico toglie a suo fratello Mime e grazie al quale può picchiare gli schiavi senza essere notato. Quello che colpisce di più nell’interpretazione di Vick è la vicinanza tra l’azione e il pubblico. Il regista costruisce una passerella che collega il palcoscenico con la platea e vi inserisce alcuni momenti dello spettacolo; egli pone il pubblico al centro dell’azione grazie alla collocazione del canto finale delle Figlie del Reno fuori scena, sul lato opposto della platea. A contribuire alla compartecipazione degli spettatori al “rito” è la mancanza del sipario, ove si eccettui il siparietto superiore che in questo contesto ha disturbato l’essenzialità della visione generale.
La produzione palermitana gode di un cast davvero eccezionale di cantanti, di cui molti di madrelingua tedesca, che presentano non soltanto eccelse vocalità, ma anche una recitazione disinvolta e professionale. Andando in ordine di apparizione non si possono trascurare le tre Figlie del Reno, Ana Puche Rosado, Christine Knorren e Lien Haegeman, rispettivamente Woglinde, Wellgunde e Flosshilde, ma è la voce del mezzosoprano Knorren che rimane impressa per la sua particolare ricchezza e spessore, che si adattano perfettamente alla densa scrittura wagneriana. È estremamente trascinante l’Alberico di Sergei Leiferkus, sia dal punto di vista vocale che da quello scenico, che nella sua forza si avvicina all’altro protagonista, Wotan, cantato da Franz Hawlata. Hawlata presenta un coinvolgimento emotivo in crescendo, ma sin dall’inizio occupa il palcoscenico in maniera singolare, rivelando particolari doti di recitazione. Tra le due sorelle, Fricka (Anna Maria Chiuri) e Freia (Stephanie Corley), è Freia quella che attira più attenzione per la sua suadente e robusta vocalità. Meritano una nota i due giganti eccezionalmente grotteschi, Fasolt e Fafner, recitati da Keel Watson e Christian Hübner – che, vestiti da lavoratori di strada, girano sul palcoscenico con mini-carrelli elevatori – ma anche l’atletico Donner, interpretato da Eric Greene, dio del tuono, che, vestito da giocatore di polo con una stecca gigante di legno in mano, si mostra anche un abile danzatore. È adatto al ruolo anche il Mime di Robert Brubaker, mentre non esaltano le voci di Alex Wawiloff nei panni di Froh, in questo caso un fratello piuttosto infantile di Donner che non lascia mai il suo orsacchiotto di peluche, e di Will Hartmann come Loge, che con la sua vocalità soave e lirica non riesce a esprimere al massimo il carattere demoniaco del personaggio. C’è da spendere, infine, qualche parola sul personaggio di Erda, recitata con successo da Ceri Williams che dispone di una vocalità imponente, ma che dal punto di vista della regia è stata trattata in maniera controversa. La madre terra, che dovrebbe simboleggiare l’insieme dei fenomeni naturali e la fecondità, viene qui confinata al ruolo di volgare matrona che seduce in modo piuttosto sconcio il confuso Wotan. Questo Anello del Nibelungo «racconta di noi qui e adesso, dell’Italia, della Sicilia, del Massimo», spiega Vick nell’intervista con Jacopo Pellegrini pubblicata sul programma di sala, lasciandoci piuttosto sorpresi e preoccupati.
Per quel che riguarda la musica – l’elemento fondamentale, per non dire fondante, della creazione wagneriana – l’organico orchestrale limitato non ha potuto rendere adeguatamente la complessa ed esigente partitura dell’opera. L’inizio poco sicuro, con gli ottoni leggermente calanti, non ha portato a uno sviluppo consueto, ma è continuato in un magma sonoro poco udibile, soprattutto nei momenti di importanza cruciale, come il battere delle incudini nella scena degli schiavi di Alberico. La direzione di Pietari Inkinen è stata inattaccabile dal punto di vista tecnico, ma è mancata del grande respiro wagneriano, in virtù dell’impossibilità fisica di pretendere più volume da gruppi strumentali numericamente insufficienti. Nell’intervista con Pellegrini Inkinen ammette che i «tempi scorrevoli» e le «sonorità più incisive e asciutte» permettono alla tipica orchestrazione wagneriana di guadagnare «in chiarezza quel che perde in imponenza rocciosa». Sembra quindi voluto l’effetto sonoro più delicato e meno tradizionale. Gli si può dare ragione per quanto concerne questa interpretazione, che porta però il teatro wagneriano a un certo appiattimento di significati e contenuti. Sarebbe stato forse opportuno valutare anche i rischi che si corrono allontanandosi dal pensiero proprio del compositore, in questo caso unico autore di testo e musica, e delinearne i limiti.
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