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Opera • Pieno successo per l’opera che piacque tanto a Leopoldo II. In questa (riproposta) versione torinese, bene il cast tra impegno vocale e doti attoriali, piglio sicuro e vivace anche per il giovane direttore Francesco Pasqualetti
di Attilio Piovano
[IL] 7 febbraio 1792, a Vienna, presso il Burgtheater, andò in scena per la prima volta Il matrimonio segreto di Cimarosa e fu un trionfo, tant’è che quella sera stessa l’opera fu replicata per intero seduta stante per volere dell’imperatore Leopoldo II, caso pressoché unico nella storia del melodramma. L’episodio – ben noto ai melomani – a ben pensarci, ha del clamoroso, cose d’altri tempi, ma vorrà pur dire qualcosa. E infatti è tuttora uno dei capolavori del teatro buffo settecentesco che pur tuttavia non è affatto frequente incontrare nella programmazione corrente. Per dire: al Regio di Torino non lo si rivedeva dalla stagione 2001/2002: ed è proprio quell’allestimento che viene ripreso in questi giorni (dal 14 al prossimo 24 marzo, per complessive sette recite), allestimento in co produzione con l’Opéra de Monte-Carlo.
Alla prima il successo è stato pieno e convinto. Pur tuttavia occorre registrare come l’opera sia andata in crescendo nel corso della serata; un poco appannato il primo atto, qua e là pareva languire, ma dall’apertura del second’atto è senz’altro decollato con un apprezzabile e parzialmente imprevisto colpo d’ala. Per garantire il successo pieno fin dai primi istanti, si sa, occorre un cantante-attore dalle strepitose qualità (a Torino nel 2002 c’era quel gran mattacchione di Enzo Dara, voce stentorea e presenza scenica impagabile, di quelle che ‘sforano’ e in questi casi il divertissement è assicurato fin dalla prima esilarante comparsa in scena). Ora è toccato a Paolo Bordogna vestire i panni del parvenu Geronimo, facoltoso commerciante in cerca d’un buon partito, possibilmente titolato e aristocratico per ognuna delle due figlie, Carolina ed Elisetta; è un classico stereotipo del teatro buffo, sennonché la minore Carolina ha già compiuto la sua scelta in segreto sposando il mite e tutt’altro che nobile Paolino. È la commedia degli equivoci: i fraintendimenti si affastellano già alle prime scene (anche per la sordità congenita di Geronimo), la gelosia tra le sorelle rivali esplode capricciosa e via dicendo. Ma alla fine il perdono del padre giunge immancabile, quasi in contemporanea al provvidenziale e risibile voltafaccia del conte Robinson: con un ribaltone psicologico di quelli che compaiono solo nelle opere buffe, accetta infine di sposare Elisetta – che pure non gradiva fino a poco prima – a fronte d’uno sconto sulla dote, determinante agli occhi del tirchio Geronimo. Unica a restare a bocca asciutta, nel clima festaiolo che finisce per coinvolgere l’intera casa, è la zia Fidalma, la quale aveva messo incautamente gli occhi sul già impegnato Paolino. Bordogna se l’è cavata bene sul piano scenico (inevitabile però il confronto a suo sfavore con l’edizione del 2002), sia pure destando qualche perplessità iniziale. Vocalmente a posto, ha regalato istanti di divertimento e innegabile comicità senza eccessi.

Dal podio il giovane direttore Francesco Pasqualetti, gesto chiaro e incisivo, ha guidato con mano salda, garbo e indubbia efficacia, l’orchestra del Regio, ridotta ai ranghi di ensemble settecentesco e un poco rialzata in buca per ovvie ragioni acustiche. Pasqualetti ha affrontato con ritmo pimpante già la croccante ouverture leggendo con raffinatezza e cesellando con cura la partitura dalla trasparenza ancor tutta settecentesca e pur foriera di aperture sul teatro rossiniano. Il battibecco tra le sorelle è andato svolgendosi con humour, arguzia e i giusti accenti grazie alla buona prova fornita dall’ottima Barbara Bargnesi – una Carolina misurata, saggia come si conviene, ora languorosa e mesta, quasi picciniana Cecchina, ora conciliante e affettuosa – e così pure grazie all’interpretazione di Erika Grimaldi (l’acida Elisetta) dalla voce incisiva, ma con qualche eccesso nella recitazione, fin troppo caricata. Roberto de Candia ha ricoperto da par suo il ruolo del conte Robinson, tenendo bene la scena, con tratti di comicità mai sguaiata, timbro aitante e ricchezza di sfumature, con una chiarezza di dizione ammirevole e momenti di notevole efficacia visiva e vocale senza inutili smargiassate. Meno convincente il Paolino di Emanuele D’Aguanno (eccessivo il suo vibrato), scenicamente a tratti un poco impacciato. Bene la zia Fidalma impersonata da Chiara Amarù che ha saputo conferire al personaggio la giusta e volubile frivolezza. Piacevolmente tradizionale la scena unica di Jan Schlubach, classicamente giocata su simmetrie di scale, porte e finestroni ora aperti sul cielo azzurro, ora velati da tende pastello giallo ocra. Costumi super tradizionali (e va bene così) di Martin Rupprecht. Quanto alla regia di Michael Hampe, ora ripresa dal sempre preciso e puntuale Vittorio Borrelli, conserva la sua validità, del tutto funzionale allo spettacolo dove i personaggi si muovono per lo più con gusto: merito della regia non averne fatto macchiette, restituendo tutta la freschezza all’intramontabile partitura; il sobrio andirivieni di servitori, ora impegnati a spostare tavoli, alberelli, tappeti e quant’altro, ora discrete presenze fornite di candelieri a rendere propizio la scioglimento notturno della vicenda, aggiunge un tocco in più ad una regia lineare e ‘pulita’ come si conviene ad un opera settecentesca, senza cerebralismi e inutili ammiccamenti intellettuali. Alla riuscita dello spettacolo ha fornito un imprescindibile contributo Giulio Laguzzi maestro al fortepiano, assecondando i cantanti nel disimpegno degli sciolti recitativi. Applausi convinti all’intero cast, al direttore e all’orchestra.
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