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Opera • Dopo 46 anni di regno dei Berliner Philharmoniker, il Festival di Pasqua della città austriaca è passato alla Staatskapelle di Dresda. L’ultima opera wagneriana ha aperto e chiuso la rassegna, tra sublime concertazione di Christian Thielemann e stoltezza della regia
di Francesco Lora
Q uando fondò il Festival di Pasqua di Salisburgo (1967), Herbert von Karajan aveva uno scopo ben preciso, all’epoca implicito e poi dichiarato ai biografi: lavorare più di frequente e più nel profondo sul teatro wagneriano, e far scendere in un golfo mistico – ossia in un’esperienza teatrale completa – i Berliner Philharmoniker, orchestra di vocazione altrimenti tutta sinfonica. Anche dopo la scomparsa di Karajan, al Festival di Pasqua i Berliner sono rimasti per lungo tempo i padroni di casa: il ribaltone giunto quest’anno, col passaggio di consegne alla Sächsischen Staatskapelle di Dresda, apre una nuova era nella storia della rassegna senza contraddirne i presupposti di partenza. Sembra, anzi un ritorno alle origini: rispetto alla sorella berlinese, globalizzata e infrigidita sotto le direzioni musicali post Karajan, l’orchestra di Dresda incarna oggi la tradizione germanica in maniera più incorrotta e con un rilievo tecnico per nulla inferiore. Garante di questa eccellenza è a sua volta Christian Thielemann, il massimo direttore d’orchestra tedesco oggi in attività e il recente nuovo direttore musicale della Staatskapelle: a voler chiudere il cerchio e a voler ricercare la continuità, tanto vale ricordare come egli sia stato l’assistente dell’ultimo Karajan.
Sotto Thielemann e la Staatskapelle, il programma del Festival di Pasqua vede confermato il suo assetto storico: un’opera in forma scenica, alcuni concerti sinfonici e alcuni altri da camera, il tutto replicato in due cicli specularmente identici, l’uno orbitante intorno alla domenica delle Palme (quest’anno, 23-26 marzo), l’altro intorno a quella di Pasqua (28 marzo – 1° aprile), con sede principale nel Grosses Festspielhaus. Il percorso concilia gli anniversari da onorare, la varietà delle proposte e l’interrelazione tra di esse, non meno che una speciale autopresentazione artistica e tecnica della Staatskapelle al pubblico della sua nuova residenza. Il perno di tutto è Richard Wagner, festeggiato nel bicentenario della nascita: a lui spetta il titolo operistico, Parsifal, e intorno a lui ruotano i nomi dei venerati Ludwig van Beethoven e Carl Maria von Weber, del rivale e coetaneo Giuseppe Verdi, dell’oppositore Johannes Brahms e dei lontani epigoni Gustav Mahler e Hans Werner Henze; sul podio, il protagonista Thielemann cede al collega Myung-Whun Chung un quarto degli eventi. Uno schema analogo è già stato annunciato per il festival del prossimo anno (12-21 aprile): Arabella di Richard Strauss, concerti a base di Strauss stesso, Wolfgang Amadé Mozart e Wolfgang Rihm, e podio condiviso tra Thielemann e Christoph Eschenbach.
Pregustiamo già ora la ventura Arabella. Ma nella locandina del Parsifal, un dettaglio in particolare aveva acceso la nostra curiosità, e cioè il fatto che le parti di Amfortas e di Klingsor, il peccatore ferito e il tentatore armato, fossero affidate a un unico interprete. È una scelta che, sulla carta, ha del geniale: l’operazione – probabilmente già tentata in passato, ma della quale non resta memoria attuale – ha in sé un debordante potenziale drammatico, e sfida l’attore-cantante a una performance di bravura, cioè saper restituire nella voce e nel gesto due personaggi agli antipodi (ma con tessitura vocale coincidente). Una simile prassi ha un’antica legittimità: nel repertorio oratoriale secentesco era prassi che più interlocutori confluissero nella gola di un solo cantante, e i compositori sfruttarono spesso questo uso a fine drammaturgico, destinando a uno stesso interprete coppie di personaggi di segno contrario. È un pensiero cervellotico? Può darsi; ma il Parsifal è un lavoro tra i più enigmatici del repertorio operistico, e dunque tra i più stimolanti sia per i concertatori sia per i registi: chi abbia la pazienza di inseguirne gli allestimenti per il mondo vedrà come questo titolo, più di altri, sia palestra di virtuosismi sinfonici, esegesi drammaturgiche e sperimentazioni scenotecniche. O anche di estremismi interpretativi destinati a un pubblico di super-esperti: per esempio, nel Parsifal con regìa di Stefan Herheim per Bayreuth 2008, era indagato soprattutto il rapporto tra Parsifal e la misteriosa madre Herzeleide, ritrovata materialmente in Kundry e spiritualmente in Amfortas; chi capì, si leccò i baffi.
A Salisburgo, tuttavia, il pindarico piatto è stato servito freddo. Non conoscevamo prima il nome di Michael Schulz, regista che infatti non ha ancora calcato le scene di teatri lirici notevoli, se si eccettuano un Elisir d’amore e un Idomeneo appena concepiti per la Staatsoper di Dresda. Di certo, egli ha perduto una ghiotta occasione di lancio internazionale, dimostrando analisi irrisoria del testo wagneriano e insufficiente conoscenza di quanto già realizzato e conseguito dai suoi predecessori; in altre parole: inattitudine a competere su uno dei terreni più scabrosi del teatro d’opera. L’accorpamento Amfortas-Klingsor perde ogni attrattiva all’aprirsi del sipario sull’atto II: si scopre allora che, per Schulz, non vi è alcun corto circuito tra i due personaggi; la voce e il corpo di Amfortas sono invece un avatar di Klingsor, nano e deforme in nome di un banale principio di kalokagathìa (ovvero: la bellezza sta col buono, la bruttezza sta col cattivo; rimpiangiamo, su questo tema, l’insegnamento del Parsifal di Denis Krief per Venezia 2005, dove Klingsor era al contrario vanitoso e bello, come seducente signore del regno del peccato; o il Parsifal di Christine Mielitz per Vienna 2004, dove Thomas Quasthoff fu disposto a impersonare il disperato Amfortas – non certo il perfido Klingsor – col proprio corpo offeso dalla focomelia).
Al di là dell’esempio isolato, nella regia di Schulz manca l’approfondimento nel testo, mentre non si perde occasione di creare controscene a lato dell’azione principale: la recitazione degli interpreti protagonisti è abbandonata a sé stessa, contando sull’esperienza pregressa di ciascuno, così come il movimento delle masse è quasi azzerato per non interferire con la paccottiglia accumulata sul palcoscenico dallo scenografo e costumista Alexander Polzin (pare d’essere a una di quelle grandi rivendite di materiali edilizi, come se ne trovano spesso agli squallidi margini delle superstrade). Al contrario, una volta cantate le sue quattro-note-quattro nell’atto III, Kundry non è lasciata disoccupata: un incognito figurante si toglie la tuta nera integrale, si rivela essere un aitantissimo Gesù Cristo, flirta con lei per una buona mezz’ora (i tempi wagneriani lo consentono) e viene infine viene trafitto con la sacra lancia (mentre la donna, giustamente, si sbraccia in pantomime da prefica). È la disarmante liquidazione di ogni possibile riflessione cristologica intorno a Parsifal (persino l’enfant terrible Christoph Schlingensief, nella sua contestatissima regia per Bayreuth 2004, aveva saputo lavorare di fino su questo tema). Da dimenticare, vorremmo dire, se non fosse che questo allestimento salisburghese passerà ora al patrimonio della Staatsoper di Dresda, e lì verrà ripreso per chissà quante altre stagioni di repertorio: una condanna alla preservazione dell’errore, per il gusto di far provare a ogni spettatore i tormenti di Amfortas.
La compagnia di canto è di buon rango. La voce più preziosa è quella di Johan Botha, tenore di timbro radioso, all’italiana, e di emissione tanto salda quanto morbida; quand’anche il fraseggio non sia dei più rifiniti, è proprio il suo materiale vocale a suggerire la giovanile spontaneità del personaggio protagonista; per converso, l’evoluzione psicologica da puro folle a re del Gral non sembra neppure abbozzata, così come l’impegno a sciogliere sulle scene l’impaccio di una presenza fisica opulenta e infelice. Una splendida fraseggiatrice e un’attrice di consumata abilità è invece il mezzosoprano Michaela Schuster come Kundry: ogni parola è indagata con raro acume, e ogni gesto si fa spazio senza platealità; ma il caso è reciproco di quello di Botha anche nei difetti: questa Kundry, ideale per i selvatici borbottii e scatti degli atti I e III, non può tuttavia ostentare, nella seduzione dell’atto II, la malia timbrica e la varietà di colori cui una Régine Crespin, una Christa Ludwig, una Waltraud Meier o una Violeta Urmana ci hanno abituati. Curioso è il caso di Stephen Milling, che interpreta la parte di Gurnemanz con uno scavo encomiabile: la voce è di grana grossa, risonante sì, ma di timbro opaco e avara di colori; il testo poetico è nondimeno articolato in modo franco, vivido, amorevole, sintetizzando un personaggio monumentale sia nella possanza cavalleresca sia nella pudica bontà d’animo. Infine, anche dal punto di vista musicale l’accorpamento di Amfortas e Klingsor non riesce: con tutta la sua nota intelligenza d’interprete, il baritono Wolfgang Koch fatica a separare i due caratteri, intonando con identici colori un Amfortas troppo arrogante per non sembrare Klingsor, e un Klingsor troppo remissivo per non sembrare Amfortas.
Tutti i cantanti hanno però dalla loro il sostegno, particolarissimo, di Thielemann: nei loro punti di forza quanto in quelli deboli, quando è lui a dirigere tutti paiono trasfigurarsi e superare sé stessi. Quando è lecito calcare la mano sulla straordinaria propensione virtuosistica della Staatskapelle, è difficile immaginare una resa sonora più sfarzosa: dal golfo mistico, il riverbero argentino degli archi, la docili marezzature dei legni, il corrusco scoppio degli ottoni sono lì per portare all’immane gli interludi delle “scene di trasformazione”. Ma la lettura di Thielemann è di norma sommessa e cantabile, non indirizzata all’estetizzazione, e attenta in primo luogo all’intesa con le voci. Con suono sempre compatto, quasi porfido che assorbe la luce anziché rifletterla, il direttore riconferma e raddoppia le proprie qualità di narratore: ogni battuta, benché solennemente integrata nell’insieme, riceve dal suo gesto quell’increspatura, quell’esitazione, quell’occasionale graffio che muta il testo sinfonico in azione scenica o moto dell’anima; e poiché questa conoscenza capillare della partitura non pretende d’esibire alcunché, quasi impossibile indicare un passo esemplare, ossia dove in particolare convenga tendere l’orecchio: «Ovunque», sarebbe la risposta. Né la tavolozza di Thielemann si limita ai leggii d’orchestra, poiché la stessa ineffabile cura del dettaglio è condivisa nei colori e nell’accento – cavalleresco o giovanile o fanciullesco, come Wagner stesso li stratifica nel tempio del Gral, dal pavimento alla sommità della cupola – dal numerosissimo coro, preparato da Pablo Assante e Wolfgang Götz, e formato dalle voci della Staatsoper di Dresda, della Staatsoper di Monaco di Baviera e da quelle, bianche, del Festival di Salisburgo. A patto di chiudere gli occhi, un Parsifal tra i più struggenti mai ascoltati.
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