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All’Amiata Piano Festival i due solisti hanno proposto al pubblico di scegliere il programma del concerto: ne è sortito un mix molto eterogeneo
di Cecilia Malatesta
Chi percorre quaranta chilometri da Grosseto verso Siena su stradine tortuose battute più da cinghiali che da cristiani, attraversa alto l’Ombrone, si inerpica verso Poggi del Sasso e percorre la cresta dei colli per poi svoltare ad un tratto tra le vigne, sa che alla Sala Musica Collemassari ci sono Silvia Chiesa e Maurizio Baglini ad accoglierli. Parte della nona stagione dell’Amiata Piano Festival si svolge qui, in una recente costruzione che Stefan Giesen, fondatore della rassegna insieme a Maurizio Baglini, ha pensato come sala di registrazione: essenziale e da soli cento posti, a breve tornerà esclusivamente alla sua destinazione primaria, mentre il pubblico si accomoderà poco più a sud, in cima alla collina, dove è in costruzione un auditorium dedicato. La serata di apertura di questa nuova edizione è un omaggio che i due musicisti hanno voluto rivolgere al proprio pubblico di affezionati uditori, turisti e locali, qualche faccia nuova, qualche giovane studente di Conservatorio che volentieri si sposta per ascoltare alcuni dei «migliori musicisti che si abbiano a disposizione». È in programma un “non-programma”, un concerto “à la carte” costruito sulle richieste del pubblico chiamato a esprimere tre preferenze – considerando ogni singolo movimento di sonata – tra i venti brani proposti; cinque ore e mezza di musica per violoncello e pianoforte da cui pescare, da Beethoven a Mendelssohn, da Schubert a Chopin, Saint-Saëns, Šostakovič, Busoni, Webern, solo per citarne alcuni. C’è il divertimento di chi non ha timore nel porre crocette sparse, c’è l’imbarazzo di chi non crede sia possibile separare i movimenti di una sonata; cosa ne verrà fuori? Che siamo un popolo di conservatori e non ci scolliamo da Beethoven, Brahms e Chopin nemmeno se c’è un Webern “mordi-e-fuggi” da meno di tre minuti.
E mentre il computer elabora i dati, Baglini regala un hors d’oeuvre di mazurka chopiniana, il primo assaggio della degustazione della serata. Un primo tempo densissimo e pastoso che si apre con il primo e il secondo movimento – fiat voluntas populi – della Sonata op. 65 di Chopin, nulla di più lontano dal pianismo brillante da salotto di facile godibilità, con un violoncello che con la sua presenza e il timbro pieno e corposo sembra integrare la scrittura musicale ancora prettamente pianistica, soprattutto nel primo movimento, ed eliminare ogni elemento leggero dallo Scherzo, pur muovendosi con estrema agilità. Seguono l’ultimo tempo dalla Sonata op. 69 di Beethoven, dalle intenzioni orchestrali ben sostenute dall’interpretazione di Baglini, per giungere all’Allegro vivace e all’Allegro appassionato dell’op. 99 di Brahms. Ritmo serratissimo, groove implacabile che spinge in avanti il violoncello di Silvia Chiesa in un crescendo da applauso.
Scelta ardita quella di porre tra ginestre e cipressi due casse ad amplificare ciò che accadeva dentro la sala durante l’intervallo, Maurizio Baglini impegnato nell’interpretazione di Concetto spaziale. Attese per pianoforte e nastro magnetico del contemporaneo Nicola Sani. Non proprio un brano da sottofondo: rombi, ostinati percussivi sui martelletti, forse di difficile fruizione in sede di concerto, ma che in questo modo, sottratti ad un ascolto attento e concentrato, sono stati più che altro recepiti come elementi di disturbo alle chiacchiere accompagnate da un bicchiere di vino, sulla terrazza al tramonto. Sarebbe stato forse più idoneo l’ultimo brano in programma, quella suite dalla quale Dario Marianelli ha tratto la colonna sonora che gli è valsa il Premio Oscar per Atonement e che è risultata, invero, faticosa per l’assenza di riferimenti visivi a supporto di un’impegnativa reiterazione motivica e timbrica. Attacco poetico al rientro in sala con l’Elegia di Fauré, magistralmente delineata dal violoncello di Silvia Chiesa, agile e morbido, di grande personalità, prima di giungere al primo tempo della Sonata op. 6 di Richard Strauss, irruenta, «virtuosistica ed energica», emblema di una spinta del giovane compositore in cerca di affermazione, come spiega Baglini nella breve introduzione al brano. Grandi volumi e uso massiccio della pedalizzazione, una lettura convincente.
Lettura inevitabilmente convincente anche per gli altri brani, perché, a fronte di un’esecuzione tecnica impeccabile, è difficile esprimere un giudizio critico sull’interpretazione di un brano sulla base di uno o due movimenti; una degustazione, appunto, un assaggio, gradevole e stuzzicante, che non permette però di comprendere e godere appieno dell’approccio che un interprete mette a disposizione del pubblico. Coi limiti di una scelta prettamente e volutamente ludica, che offre un momento di svago più che di riflessione, non si può però non apprezzare lo sforzo di mettersi in gioco e rischiare, rinunciare ad imporre una propria visione ed un percorso musicale che si sente proprio, il rimanerne anche delusi, come confessa Silvia Chiesa, nel prendere atto della poco curiosità e voglia nel lasciare il sentiero tracciato. Sforzo fisico, nel tenere sotto le dita venti brani diversi, sforzo intellettuale ed emotivo nella mancanza di un oggetto cui indirizzare le forze prima di entrare in sala, la totale sensazione di straniamento data dal “non sapere” che non permette di calarsi nella parte fino a qualche istante prima. L’assenza di una continuità musicale che costringe ad un impegno superiore per passare repentinamente da un brano all’altro, infrangendo quel «sistema di momenti di tensione e di quiete di cui è costituita una sonata», dice Silvia Chiesa, che permettono un naturale recupero fisico e mentale. «Vogliamo costruire un ponte tra noi e il pubblico. Non per educare, ma per costruire». Perché, in un rapporto ormai consolidato, non approfittarne e non fidarsi?
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