Opera • L’opera dei fratelli Luigi e Federico Ricci, piacevole melodramma “fantastico-giocoso”, è andata in scena al Festival della Valle d’Itria
di Luca Chierici
Ha alle spalle una storia iniziale di grandi successi, in un’epoca in cui il confine tra musica d’arte e musica di strada o “leggera” che dir si voglia era davvero molto esiguo, almeno in Italia. Ed ora è felicemente riapprodato sul palcoscenico del Palazzo Ducale di Martina Franca il piacevole melodramma “fantastico-giocoso” Crispino e la comare dei fratelli Luigi e Federico Ricci, eseguito per la prima volta a Venezia nel febbraio del 1850. I due Ricci creano abilmente un prodotto che riesce a dire qualcosa di nuovo in una miscela complessa di elementi che attingono al fantastico, al teatro dialettale, servendosi anche dell’efficace libretto messo a punto da Francesco Maria Piave. Ma la loro attenzione è puntata sull’allora già ben consolidata tradizione dell’opera buffa rossiniana e donizettiana e ancor di più su una ben più consistente produzione tipica della commedia napoletana del Settecento e dei primi decenni dell’Ottocento (ma anche più in là, con autori come Cagnoni e Pedrotti), i cui esemplari manoscritti se ne stanno in gran parte a dormire sonni tranquilli nelle capienti sale della Biblioteca di San Pietro a Majella.
La regia di Alessandro Talevi ha insistito sul valore della morale che si trae dalla storia del ciabattino arricchito, ossia sul contrasto tra la falsa felicità procurata dal denaro e il valore dell’onesto lavoro artigianale di Crispino
L’elemento vocale parrebbe qui del tutto pensato per far risaltare la figura di Annetta, moglie del ciabattino Crispino, esemplare di soprano lirico di agilità che tuttavia richiede doti interpretative non proprio trascurabili e che fu prediletto da grandi cantanti dell’Ottocento ma anche da dive cronologicamente più vicine a noi come la Sutherland. Annetta è vocalmente una Zerbinetta ante-litteram che sfoggia lunghi trilli, inconsueti passaggi di agilità, puntature da capogiro, ma che è tutt’altro che un automa privo di spessore caratteriale. L’interpretazione di Stefania Bonfadelli è stata di buon livello sotto molti punti di vista, non ultimo quello di saper delineare le qualità di carattere del personaggio cui accennavamo più sopra. Ma anche dal punto di vista strettamente vocale il soprano ha saputo affrontare con successo i temibili confronti nella famosa aria «Io non sono più l’Annetta» e ancor meglio nell’altrettanto nota «Canzone della fritola».
Domenico Colaianni ha impersonato come non meglio si poteva la figura di Crispino, facendo pensare all’inizio a una sorta di Hans Sachs nostrano che in questo caso, invece di segnare il tempo col martello sul suo panchetto di lavoro al povero Beckmesser, si ribella alla sua condizione di subalterno nella canzone iniziale «Una volta un ciabattino». Ma tutti i suoi interventi sono stati applauditi, sia nei duetti che negli altri pezzi d’assieme, e lo hanno portato al termine a ricevere da parte del pubblico autentiche ovazioni. La regia, le scene e i costumi, come diremo tra poco, davano gran risalto alla figura della Comare, mezzosoprano che insiste sul registro grave e che è stata degnamente rappresentata da Romina Boscolo. E ancora importanti sono in quest’opera i ruoli dell’amoroso Contino del Fiore (bravo il tenore Fabrizio Paesano, cui è assegnato il compito di rompere il ghiaccio con la sua romanza d’apertura dell’atto primo), del medico Fabrizio (il baritono Mattia Olivieri, applaudito nella sua aria iniziale), dello speziale Mirabolano (il basso Alessandro Spina) e infine del “boss” Asdrubale (il basso Carmine Monaco, che ha colto perfettamente lo spirito del personaggio).
Jader Bignamini ha concertato e diretto in maniera esemplare un testo che non presenta in sé grandi difficoltà di lettura, ma che non è così scontatamente facile da reggere, sia per il numero di parti vocali impiegate che per l’uso a volte anticonformista dell’orchestrazione.
Se Crispino e la comare si regge già molto bene teatralmente per l’intreccio insolito e il numero di sortite dei personaggi, lo spettacolo è ancora più attraente se accompagnato da una buona regia e da scene e costumi in sintonia con la prima. È stato questo il caso del lavoro effettuato da Alessandro Talevi, che si è avvalso delle scene di Ruth Sutcliffe, ispirate più a un mercato popolare napoletano dei nostri giorni che all’ambientazione veneziana indicata dal libretto, e dei costumi di Manuel Pedretti. Talevi ha insistito sul valore della morale che si trae dalla storia del ciabattino arricchito, ossia sul contrasto tra la falsa felicità procurata dal denaro e il valore dell’onesto lavoro artigianale di Crispino. Più in generale egli ha sottolineato la fugacità e inutilità della rincorsa al benessere e lo ha fatto anche ricorrendo a illustrazioni che oggi sono sotto gli occhi di chicchessia. Cartelloni pubblicitari “falsi” di abbigliamento intimo, di profumeria e di gioielleria portavano quei nomi che si leggono sugli involucri della merce dei mercatini di infimo livello, titoli che storpiano quelli delle marche originali e che danno l’illusione del lusso a prezzo più che abbordabile. Le verdi insegne convenzionali di una farmacia e i camici da chirurgo riassumevano in maniera efficace tutto il mondo di finti e veri dottori e speziali che non ne azzeccano una e che rendono ancora più credibile l’intervento di Crispino, dottore di successo grazie alle magie della Comare. A certa televisione o addirittura a una sequenza di un noto film di Arbore si ispirava poi la indovinatissima scena di apparizione della stessa Comare, una specie di santa che compare secondo una iconografia tutta nostrana di festa di paese, con tanto di lucine azzurre di contorno. Perfettamente risolte erano anche le scene che vedono la trasformazione di Annetta in una sorta di diva arricchita, con tanto di barboncino bianco e di abiti alla moda, moglie oramai di un personaggio ricco e famoso. Lo stesso barboncino, opportunamente ammaestrato, entrerà spassosamente in scena nel finale dell’atto quarto, aggiungendo una nota di colore allo scioglimento in allegria del melodramma.
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