
Opera • Nel festival della Valle d’Itria una rappresentazione del titolo verdiano con scelte artistiche che soddisfano solo in parte
di Luca Chierici
Per quanto esistano per Giovanna d’Arco di Verdi motivi sufficienti a preservarla dall’oblio, spesso gli sforzi impiegati per allestirne una nuova produzione non giustificano del tutto l’impresa, e nel caso della messa in scena dell’altra sera all’interno del Festival della Valle d’Itria solamente la ricorrenza del bicentenario poteva suggerire un nuovo inserimento in cartellone. Non si può entrare qui nel merito delle questioni relative all’aderenza tra soggetto e musica: la scelta del librettista Solera di lavorare su un dramma schilleriano che stravolge la verità storica (ma mette in luce altri aspetti funzionali a un nuovo intervento poetico) riducendone a propria volta i contorni per approdare a un più banale intreccio amoroso e a una questione di incomprensione tra padre e figlia venne approvata dal compositore e sembra solamente funzionale alla riproposta in termini musicali di un triangolo tra tenore, soprano e baritono.
La Pratt ha comunque assolto il proprio compito con bravura, stile e classe e ha meritato un successo convinto di pubblico, così come per altri versi molto buona è stata la prestazione di Julian Kim
La forzata velocità di messa a punto del lavoro da parte di Verdi e la tendenza a ritornare su modelli musicali attinti da un recente passato non concorrono certo alla creazione di un capolavoro e solamente alcuni momenti di pregio come il finale del second’atto e alcune cavatine e cabalette affidate alla protagonista giustificano oggi il recupero, a patto che si disponga di un cast di ottimo livello e di una concertazione attenta a sottolineare le anticipazioni di luoghi del Verdi maturo, ma senza calcare troppo la mano, ossia senza pretendere di aggiungere significati a una partitura che mostra non pochi limiti. Se si sceglie poi di eseguire l’opera in forma scenica, come è stato fatto al Festival, occorrerebbe contare su una regia che apporti qualche elemento inventivo al fine di sostenere la debole vicenda.
Tutti questi requisiti erano parzialmente soddisfatti dalle scelte operate per questa produzione, a partire dall’ottima direzione di Riccardo Frizza e dalla presenza di alcuni cantanti di valore. Quasi totalmente assente era invece qualsiasi tipo di idea registica e scenografica, con un ricorso a costumi discutibili per la loro goffaggine. I demoni dei famosi coretti dell’opera avevano da questo punto di vista le stesse sembianze degli elementi dell’esercito inglese, ossia i “cattivi” della situazione.
Grandi attese erano concentrate sulla presenza del soprano australiano Jessica Pratt, talento indiscutibile che ha esplorato vaste regioni del belcanto, soprattutto in terreno rossiniano. Al suo ingresso in scena la Pratt evoca indubbiamente la figura di June Anderson, una delle Giovanne più applaudite degli anni ’90, ma non ne eguaglia il fascino timbrico, l’emissione sicura nel registro medio grave, la corposità nella tessitura acuta e sovracuta. Il suo ruolo è uno dei più difficili tout-court del melodramma ottocentesco ed era stato pensato sulle doti straordinarie di Erminia Frezzolini; un ruolo che è stato prediletto dalle più grandi cantanti del ’900 e che vanta oltretutto numerose testimonianze discografiche, alcune provenienti da riprese dal vivo. La Pratt ha comunque assolto il proprio compito con bravura, stile e classe e ha meritato un successo convinto di pubblico, così come per altri versi molto buona è stata la prestazione di Julian Kim, nel ruolo di Giacomo, che si sarebbe forse voluto un poco più partecipe al dramma famigliare. L’avere nelle orecchie lo stesso ruolo nella interpretazione di Bruson non aiuta certo ad apprezzare del tutto le doti di Kim. Jean-Francois Borras nel ruolo di Carlo VII era più che accettabile: dotato di un timbro naturale felice si è immedesimato pienamente nella figura di un Re più attento a conquistare anima e corpo di Giovanna che a salvare il proprio regno dall’invasione inglese. Frizza ha concertato con sicurezza e bel gesto, ricavando dall’orchestra, dai cantanti e dal coro tutti gli effetti che erano nelle sue intenzioni. Una serata tutto sommato ben riuscita che ha contribuito alla continuità esecutiva della discussa opera verdiana.
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Il problema di June Anderson del 1996 non era certo la fatica visto che nei due anni precedenti aveva cantato pochissimo addirittura quasi niente nel 1994, ma un disturbo alla tiroide che le aveva rovinato quasi del tutto la voce e che per questo problema aveva dovuto praticamente reimpostare la voce. E’ una cosa che sanno poche persone, ci ha messo diversi anni prima che la voce riprendesse un minimo di corposità e tornasse a livelli quanto meno dignitosi per una artista del suo valore.
mi permetto di dissentire sul confronto con June Anderson, semplicemente perché quando June Anderson cantò Giovanna era una cantante piegata dalla fatica di un repertorio a lei non congeniale, il 1996. Vi posto qui un file che testimonia una voce spinta e fibrosa al centro, fissa sui primi acuti ed anche stonata.Semplicemente la Anderson era una voce con un centro molto più corposo di quello della Pratt, che non ha certo fornito una buona prova in un ‘opera che non le si confà.
http://www.youtube.com/watch?v=VJYNFBmxTaE
Non parlate di cose che non conoscete, e non scrivete di cose che non conoscete, se non le avete sentite.