[wide]
[/wide]
Opera • Mentre Leiser e Caurier ambientano il titolo di Bellini nella resistenza antifascista, con un lavoro registico esemplare, la partitura ritrova la sua dimensione vocale e strumentale d’origine. Una sbalorditiva Cecilia Bartoli coinvolge fino all’entusiasmo una compagnia di canto eccezionale
di Francesco Lora
Norma di Vincenzo Bellini al Festival di Salisburgo: cinque recite nella Haus für Mozart, dal 17 al 30 agosto, dopo le due andate in scena in anteprima nel maggio scorso, spettacolo cardine del Festival di Pentecoste. Durante l’esecuzione della Sinfonia, il sipario si apre due volte per scoprire altrettanti tableaux vivants. Nel primo si vede la quotidianità di una scuola elementare negli anni del regime fascista, con una squadra di militari venuta a vessare una maestra acqua e sapone, la cui unica colpa potrebbe essere scritta nelle leggi razziali: in quel contesto corre uno primo sguardo inequivocabile tra il graduato Pollione e la preside Norma. Nel secondo quadro si vede la stessa scuola, trasformata in luogo di ritrovo di partigiani nel pieno della seconda guerra mondiale: nella tragedia sociale Norma è divenuta carismatica persona di riferimento tra le bombe, i feriti e i compagni nei quali infiammare la rivendicazione della libertà; una sacerdotessa laica, che predica l’amor di patria e il diritto di natura.
Più che una menzione meritano Riccardo Minasi e Maurizio Biondi, curatori della nuova edizione critica adottata a Salisburgo, la quale espunge errori, ripristina passi di strumentazione perduta, consiglia ai cantanti variazioni d’epoca
Ai lettori che già staranno aggrottando le sopracciglia, diciamo che questo è l’antefatto di una tra le più illuminate e rifinite regie d’opera viste in teatro negli ultimi anni: la firmano Moshe Leiser e Patrice Caurier, professionisti di carriera trentennale ma poco noti ai melomani italiani, affiancati da Christian Fenouillat come scenografo (il colpo d’occhio è quello di un’ottima fotografia sabbiata da commedia cinematografica francese) e da Agostino Cavalca come costumista (che è il primo a evocare l’epoca di traslazione, con la scelta di inconfondibili tagli d’abito e tessuti démodé).
Il giudizio entusiastico di questa recensione è appeso soprattutto a ciò: via via nel corso dell’opera, e poi nella riflessione dopo lo spettacolo, si ha l’impressione di scoprire Norma come per la prima volta, nella sua cruda o tenera letteralità librettistica e musicale anziché nei paludamenti classici che sempre l’hanno avvolta ed esposta a una lettura tutta coturnata, simbolica, dove anche la più violenta passione suona idealizzata e irreale. Per capirci: poca o nessuna partecipazione emotiva innescano, nel pubblico odierno come forse anche in quello ottocentesco, turbe di Galli genuflesse a Irminsul; e il rogo purificatore finale è soprattutto percepito come sublimazione della fiamma amorosa di Norma e Pollione. Ma vedere partigiani laceri che agognano la libertà, e vedere i protagonisti concretamente e orrendamente arsi vivi nella scuola incendiata a bella posta, è cosa di ben altro impatto. E l’impatto è benvenuto quando non un solo verso poetico o una sola melodia dell’opera risultino offesi da una rilettura che, lungi dallo stravolgere, sembra portare in superficie con amore di filologo la vera, disincrostata, sensibile nudità del testo.
Dopo i tableaux vivants dell’antefatto, raccontare minutamente di uno spettacolo tutto intento ai particolari minimi sarebbe impresa disperata. Si auspica piuttosto la ripresa a oltranza di questo allestimento, con la stessa qualità artistica che il Festival di Salisburgo sa garantire, e si fa un rapido sommario di aspetti emblematici sparsi. Colpisce per esempio quando, dopo aver declamato «pace v’intimo… E il sacro vischio io mieto», Norma passa tra i compagni di resistenza, raccogliendo nel soprabito i rametti che rappresentano il voto di ciascuno alla sua perorazione (e ottenendo a fatica il consenso del padre Oroveso). E si sussulta con Norma e Clotilde quando, nel secondo quadro dell’atto I, l’arrivo di Adalgisa è annunciato dall’accendersi di una luce sul giroscala. Si sorride e sospira quando, all’inizio dell’atto II, Norma se ne sta scompostamente seduta sul pavimento, lo sguardo perso, la mano sulla bottiglia di grappa: svestita dei panneggi sacerdotali, si vede solo la donna abbandonata, per la quale carisma e menzogna sono divenuti un identico peso; si vede l’annichilimento per il male d’amore che fa parte della vita di ciascuno.
Lo spettacolo, beninteso, non reggerebbe in modo altrettanto splendido se tutti gli interpreti – in sé musicisti prima che attori – non corrispondessero con alta ispirazione teatrale. Il sensazionale lavoro di gruppo annoda in un tutto unico i meriti di ciascuno, e confligge con lo sviluppo orizzontale di una recensione e con la necessità di isolare il valore dei singoli contributi. Parliamo dunque in primo luogo del direttore Giovanni Antonini, specialista del repertorio barocco e non di quello belliniano, e dell’Orchestra “La Scintilla”, che imbraccia strumenti originali senza essere tecnicamente infallibile (ricordiamolo: a Salisburgo sono di casa i Wiener Philharmoniker). Benché sulla carta lontani dall’idealità, concertatore e strumentisti mettono a punto una lettura rivelatoria, dove la lontananza da questo repertorio – e dunque la necessità di uno studio dalla base – pare giovi a loro e a tutti più di quanto la pratica del repertorio romantico giovi a un musicista di tradizione.
Pazienza per la sorte delle lunghe lunghe lunghe melodie belliniane, ulteriormente allungate dalla sciocca equazione popolare del ‘più dolce = più piano = più lento’: Antonini stringe i tempi e tutto diventa azione scenica, moto dell’animo, passione anziché estasi, turbamento anziché contemplazione. Meno forti di suono ma più incisivi di fraseggio, gli archi sono tutto scatto, descrizione, partecipazione emotiva senza mai cedere all’affettazione. Attraverso la loro inusitata trasparenza si scoprono, inediti, i ripieni, i controcanti e i colori dei fiati: anche in questo caso, al minor volume degli strumenti antichi corrisponde un mordente precluso a quelli moderni; il Bellini classico e tragico torna a graffiare ed echeggiare, con un accento epico che non lascia dubbi alla prova dell’ascolto: è quello autentico.
Quanto all’autenticità, più che una menzione meritano Riccardo Minasi e Maurizio Biondi, curatori della nuova edizione critica adottata a Salisburgo, la quale espunge errori, ripristina passi di strumentazione perduta, consiglia ai cantanti variazioni d’epoca e restituisce la partitura nella sua integralità. Sì: ci sono passi della Norma di Bellini che da chissà quanti decenni nessuno aveva più potuto ascoltare; passi che corrispondono a quei cinque-minuti-cinque di musica risolutamente tagliati da generazioni di direttori, all’ipocrita scopo di snellire una partitura ritenuta non più al passo col pubblico di poi. Più si torna all’originale, invece, più il palcoscenico magnetizza occhi e orecchi. A maggior ragione quando la compagnia di canto sconfina nell’emblematico.
Primadonna è Cecilia Bartoli. E chi arriccia il naso sulla pertinenza del suo approccio alla protagonista belliniana sappia che tutte le primedonne del belcanto ottocentesco, come lei cresciute a pane e Rossini, non mancarono l’appuntamento con Norma; affrontata sono diverse angolature interpretative, va da sé, ma affrontata, come è magnifico l’affronti oggi una virtuosa venuta dal repertorio settecentesco piuttosto che una collega lì calata da frequentazioni tardoverdiane, wagneriane o pucciniane, e con un tipo di formazione canora (tecnica e stile) semplicemente sconosciuta alla generazione di Bellini. Dove la Bartoli fa strame di detrattori e iatture è innanzitutto nella scontata facilità d’esecuzione di una parte ritenuta quasi ineseguibile: finita l’opera, si ha l’impressione che ella potrebbe replicarla altre tre volte per intero senza denunciare la minima stanchezza vocale; si ha l’impressione che il mito della parte ineseguibile sia dovuto alla tradizionale scelta di cantanti sbagliate.
Ma la Bartoli gioca al risparmio? Niente affatto: gioca d’attacco dalla prima all’ultima nota, con temperamento incandescente, sgranatissima agilità di forza e un volume che – lo si creda o no: il pregiudizio è duro a morire – sorprende per generosità. Non viene meno la Bartoli già nota, quella del legato perfetto nei cantabili, quella che doma le variazioni più ardite, quella che, in documentato stile belcantistico, sa e può esibire lo scarto di registro, quand’anche brusco e dunque tanto più spettacoloso, dal contralto profondo e androgino al soprano leggero e brillante. E la sacerdotessa? Non è quella con peplo e corona lasciataci dalla Callas, ma la carismatica donna del popolo messa a fuoco dai registi: e se là la Bartoli si sarebbe esposta a un confronto inutile e anacronistico, qui ella rinnova il personaggio con una contemporaneità di carattere e una mobilità di affetti e gesti – nonché con una cura madrigalistica della parola – degna di far scuola per il secolo XXI. Basterebbe, nell’ultima scena dell’opera, quel «Son io» di autodenuncia, non filato ed etereo come fin qui si è sempre ascoltato, ma ruggito con disperazione in faccia all’uomo amato, come per ribellarsi al poter essere creduta delatrice e vendicativa. Un grande personaggio e una grande interprete. Una lettura filologica e un’interprete nuovissima.
Una prerogativa della Bartoli è quella di saper elettrizzare i colleghi, e di contagiarli alla stessa rifinitezza vocale e generosità interpretativa. Colleghi che di per sé sono già fior di cantanti, e che dunque vengono esortati al non plus ultra. Il tenore John Osborn è un Pollione che viene dal Rossini serio, come il Domenico Donzelli che creò la parte; ed è dunque un Pollione di emissione squillante e timbro baldanzoso, ma con un fraseggio forbito e una tecnica che non teme la tessitura baritonaleggiante, l’improvviso salto al Do sopracuto – uno di numero, nel cantabile dell’aria di sortita: non pago di saperlo prendere al volo, Osborn si diverte anche a smorzarlo – e i passaggi d’agilità che hanno fatto incespicare tanti tenori drammatici del Novecento. Il personaggio, poi, è l’opposto del bamboccione che la tradizione ha benedetto: se ne rivedono invece l’altezzoso cinismo, il materialismo, l’indole da manipolatore, lo zittito disonore finale.
Favoloso è a sua volta Michele Pertusi come Oroveso: la maniacale cura dell’accento, parola per parola e nota per nota, rasentano il calligrafico più benvenuto in questa parte spesso letta in modo assai trasandato, e fanno tutt’uno con un personaggio costretto al bipolarismo tra l’affetto per la figlia traditrice e l’adesione fanatica ai moti della resistenza (gallica o partigiana che sia). Un bipolarismo insieme psichico e vocale: giocando tra questa duplicità, il basso parmigiano vanta una varietà di colori e inflessioni esaltante. Un risalto meno accentuato spetta invece all’Adalgisa di Rebeca Olvera: ed è giusto così, poiché la parte restituita alla voce di un soprano leggero, benché gratificata dalla riapertura di alcuni tagli, in una lettura siffatta dell’opera è tuttavia riportata al suo ruolo di seconda donna, priva di una vera e propria aria di sortita e della partecipazione allo scioglimento del dramma; vi sono beninteso il duetto con Pollione e i due con Norma, dove la Olvera si distingue per delicatezza e ingenuità adolescenziale, dialogando animatamente col tenore e lasciando torreggiare una primadonna che è la vera signora della situazione tanto nello spettacolo quanto già nella partitura.
Ottime notizie anche dai confini della compagnia di canto: se la qualità infima dei comprimari imbarazza spesso le opere dell’Ottocento italiano, in questa Norma sia Liliana Nikiteanu come Clotilde, sia Reinaldo Macias come Flavio fanno valere bontà di mezzi vocali e di abnegazione attoriale. Per finire, il coro è quello della Radiotelevisione Svizzera, preparato nientemeno che da Diego Fasolis e da Gianluca Capuano; lo formano cantanti che nella vita hanno spesso carriere notevoli come solisti nel repertorio secentesco: sotto il trucco di scena si riconoscono infatti una Laura Antonaz, un Matteo Bellotto o un Walter Testolin. Il vantaggio tecnico di questa formazione, abituata alla ricerca timbrica, alla finezza di fraseggio e al porgere incisivo senza cedere a forzatura alcuna, nemmeno nella sezione dei tenori o nella furia del coro «Guerra, guerra! Le galliche selve», è evidente al primo ascolto e concorre anch’essa alla caratterizzazione di una Norma diversa e per molti versi superiore alle altre in circolazione. L’interminabile standing ovation al chiudersi del sipario, di fronte a tanto, pare invero poca cosa.
© Riproduzione riservata