[/wide]
Opera • Una storia d’amore e di follia che in parte ambienta le varie ed astruse peripezie in una stanza di manicomio. In scena il titolo di Gaetano Donizetti nel teatro che porta il suo nome
di Ilaria Badino
RIASSUNTO STRINGATO QUANTO ESAUSTIVO del soggetto di Maria de Rudenz potrebbe essere il seguente: la protagonista muore non una, non due, ma addirittura tre volte. Il titolo donizettiano è quindi rivestito da una doppia allure di terribile e di grottesco al contempo: imperfetta fusione della tragedia amorosa romanticamente sentita con quella (in-)sana assurdità connaturata a certo melodramma belcantistico.
Duplice filone di stravaganza tragicomica che, aggiunto a quello che la già di per sé sinistra trama trova nel dramma d’ispirazione La nonne sanglante di Auguste Anicet-Bourgeois e Julien de Mallian, s’è fatalmente palesato anche in occasione delle due recite bergamasche tramite l’infortunio di Ivan Magrì costretto, in seguito ad un incidente occorso durante la generale, ad esibirsi sofferente in sedia a rotelle. Il giovane tenore siciliano ha comunque fornito un’ottima prova quale Enrico, svelando una gestione della vocalità simile a quella dei verdi cimenti belcantistici del conterraneo Alagna sia per la rigogliosa pasta timbrica che, soprattutto, per la generosità del canto spiegato. Vibrante proiezione e squillo argentino hanno brillato nel primo duetto con Corrado «Qui di mie pene un angelo» anche per contrasto con l’opacità di un Dario Solari lungi dall’essere in forma, e sono risultati ulteriormente impreziositi dall’interpolazione di una spiazzante quanto gradita settima di dominante nel finale della cadenza, ottenuta arrivando ad un re bemolle sovracuto. Chissà se, inserendo questa puntatura, Magrì era memore della lezione di Rockwell Blake, che allo stesso modo concludeva, nelle recite dal vivo, la prima aria di Fernando nel Marin Faliero «Di mia patria o bel soggiorno… Ma un solo conforto».
È però nell’ultima scena cha Maria Billeri dà il meglio di sé, prodigandosi in mezzevoci ed in pianissimo da manuale
Come accennato in precedenza, Solari inizia sottotono, nucceggiando assai nell’abbondanza dei portamenti e riuscendo a liberarsi dalla fastidiosa patina che ricopre l’intera gamma vocale solo nel duetto con Maria nel second’atto, ritrovando qui, di conseguenza, anche maggiore puntualità tecnica. È tuttavia doveroso ricordare che il baritono uruguaiano è arrivato last minute nella città orobica per sostituire il previsto Paolo Gavanelli e che non ha forse avuto a disposizione tutto il tempo necessario per rifinire lo studio di una parte senza dubbio impegnativa, che la concezione drammaturgica di Francesco Bellotto rende per di più protagonistica a tutti gli effetti. Il direttore artistico del Bergamo Musica Festival, infatti, accentua l’importanza di Corrado quale chiave di volta di tutta la vicenda: è attraverso il suo sguardo allucinato ed alle via via crescenti manifestazioni anche fisico-gestuali di una pazzia cieca, violenta e smarrita che si dipana il racconto (o il sogno?) di una storia sanguinosa, che è allo stesso tempo motore, conseguenza e specchio dei personaggi che la popolano. La scelta d’ambientare, perlomeno in parte, le varie ed astruse peripezie in una stanza di manicomio non può non riportare alla mente la lettura, controversa e densissima, che Damiano Michieletto diede del Sigismondo rossiniano nell’ambito del ROF del 2010.
Piuttosto discontinua anche la performance di Maria Billeri. La sortita è tutt’altro che ineccepibile, afflitta da velature evidenti soprattutto nella zona di passaggio tra prima e seconda ottava e da un vibrato largo particolarmente palese negli acuti sfogati. Le cose cominciano ad andare meglio nel meraviglioso concertato del prim’atto «Chiuse al dì per te le ciglia» – prefigurazione di quello conclusivo del second’atto di Poliuto «La sacrilega parola» – quando il soprano pisano acquista in precisione musicale e s’impossessa letteralmente del palcoscenico, dardeggiando sguardi di fuoco ed esprimendo con gesti imperiosi (a dirla tutta, un po’ troppo) la propria irrefrenabile ira. È però nell’ultima scena ch’ella dà il meglio di sé, prodigandosi in mezzevoci ed in pianissimo da manuale e, soprattutto, accompagnando l’interpretazione vocale con mimica e movimenti intensi ma non eccessivi, ripulendoli dalla veemenza sovraccarica spesso manifestata in precedenza. Innocua la Matilde di Gilda Fiume, mentre ineccepibile il Rambaldo di Gabriele Sagona, dotato invero di mezzi interessanti; infine, apprezzabile il pur brevissimo apporto di Francesco Cortinovis nei panni del cancelliere di Rudenz.
Sebastiano Rolli è particolarmente ispirato nel dare forma al già citato concertato del prim’atto, sorreggendo con maestosità le ampie arcate delle frasi grondanti di pathos angelicato e sottolineandone i fremiti montanti tramite il risalto accordato all’intervento dei timpani. Altrove, tuttavia, sottomette la continuità dello sviluppo musicale e la cangianza della temperie emotiva a soluzioni di più spiccio effetto, come testimoniano le chiuse tonitruanti dei finali atto primo e terzo. Ineccepibile il contributo del coro maschile, puntuale ed omogeneo; purtroppo, lo stesso non può dirsi di quello femminile, che dà adito a suoni chiocci ed aspri.
Bergamo, Teatro Donizetti, 22 settembre 2013
© Riproduzione riservata