
Debutto alla regia del basso Lorenzo Regazzo nel titolo rossiniano
di Ilaria Badino
«OSSIA MESTA, MA NON TROPPO». Questa, più che l’originale, la didascalia meglio calzante al nuovo, delizioso allestimento trevigiano della Cenerentola di Gioachino Rossini, rivisitata contemplando orizzonti di accorto realismo senza tuttavia dimenticare il tradizionale alveo fiabesco. Rivisitazione che coincide con il debutto alla regia di Lorenzo Regazzo, basso di coloratura di assoluto riferimento che – per naturale predisposizione e per intelligente curiosità – ha sempre accordato particolare preminenza ai meccanismi ed agli esiti scenici del teatro musicale, oltre che a quelli meramente canori. La sua Angelina è una donna moderna (cantata alla perfezione dalla giovane Chiara Amarù, la quale assomma in sé due pregi che è assai raro contemplare insieme in un’unica voce: l’abilità nel prodursi in vorticose ma sempre nitidissime agilità e l’italianità calda e felpata del timbro), più sgamata e meno larmoyante rispetto a quella a cui siamo abituati. È lei a governare i rapporti di forza nel duetto d’amore «Un soave non so che», facendo deliberatamente cadere a terra la cesta del bucato e regolando le tempistiche della raccolta dei panni finché il buon Ramiro non è cotto a puntino; per lo stesso principio di base, assai poco le interessano i pur mirabili portenti nei quali si prodiga Alidoro (un gustosissimo Fabrizio Beggi, simpatico mattatore in possesso di vocalità densa e vigorosa) mentre snocciola la sua grand’aria «Là del ciel nell’arcano profondo»: gli occhi cominciano a brillarle solo quando dall’alto discende un abito rosa shocking che farebbe proprio al caso suo per la festa di quella sera. Tuttavia, è sui vocalizzi del rondò finale che assistiamo alla più vera e completa apoteosi della concretezza, in cui la bontà sì sussiste ancora, ma accanto ad un non mai del tutto sopito rancore e ad un’irresistibile quanto amara ironia: Angelina perdona padre e sorellastre, ma li fa comunque vestire in livrea armandoli di ferri da stiro e spruzzini, e lei stessa ascende al trono reggendo un battipanni, simbolo di un’estrazione umile che pasolinianamente non può dimenticare e che è pure metafora del violento potere casalingo di cui è stata a lungo vittima.
Anche gli altri personaggi sono sapidamente guidati dalla mano felice di Regazzo. Così, Don Magnifico è un cafone di periferia animato da un’insana passione per Elvis, di cui esibisce orgogliosamente un cartonato a grandezza naturale nella fatiscente cucina. Lo interpreta un divertente Umberto Chiummo, dinoccolato padrone del ruolo che obbliga le poco angeliche figlie a rockeggiare con lui sulla cadenza finale della prima aria. E se è pur vero che qui Cenerentola non è una santa, le due sorellastre sono forse ancora peggio di quanto ci abbia tramandato qualsiasi lectio, ovvero esseri mossi talvolta dal calcolo, talaltra da istinti niente più che animaleschi: nella scena della festa, Clorinda-Wanda Osiris non riesce a trattenersi dal saltare addosso ad un paggio, che restituisce seminudo e fremente d’orrore da uno stanzino da lei sapientemente chiuso a chiave, mentre Tisbe-Minnie corre da una parte all’altra del palazzo sbavando dietro a promettenti salamelle. Caterina Di Tonno ed Elisa Barbero si prestano molto professionalmente al gioco e risultano in tutto e per tutto efficaci nelle rispettive parti. Meno incisivi Clemente Daliotti quale Dandini (seppure dotato di materiale interessante, la coloratura è spesso imprecisa) e Lu Yuan nei panni del Principe Ramiro (nonostante le numerose, astrali puntature di cui infarcisce «Sì, ritrovarla io giuro», siamo ben lungi da un’interpretazione testuale che possa definirsi davvero tale). Lo stesso Regazzo si ritaglia un cammeo, comparendo in scena nelle vesti di un cameriere che si ritiene unico custode della tradizione originale di Cenerentola, cercando d’imporre senza successo ad Alidoro – latore della nuova visione del dramma – le consuete zucca e scarpetta di cristallo.
Ottima la prestazione del Coro Voxonus, di maschia veemenza, mentre note dolenti provenivano dalla direzione di Sergio Alapont: nel quintetto «Nel volto estatico», andare insieme è stata un’opinione più che un dato di fatto. Alle curtain calls, applausi convinti per tutti.
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