Sulla scena torinese l’inconsueto accostamento Zemlinsky-Puccini: ottimo successo per regista e cast, qualche perplessità sulla direzione di Stefan Anton Reck
di Attilio Piovano
PER QUANTO SINGOLARE POSSA SEMBRARE, a Torino non la si era mai vista. E dunque per il pubblico (e diciamolo con franchezza, in parte anche per gli addetti ai lavori) è stata una gradita sorpresa. Si tratta dell’opera in un atto Una tragedia fiorentina che Zemlinsky compose su soggetto tratto dall’omonimo (incompiuto) racconto di Oscar Wilde nella traduzione di Max Meyerfeld. Risale al 1917 (prima rappresentazione a Stoccarda) ed è davvero singolare constatare la contiguità cronologica con il pucciniano Gianni Schicchi appartenente al cosiddetto Trittico andato in scena al Metropolitan nel 1918. Il Regio – predisponendone l’allestimento ex novo – ha opportunamente accostato queste due pur diversissime partiture, accomunate dalla medesima ambientazione fiorentina (in un immaginario Rinascimento la prima, a fine Duecento il celeberrimo Schicchi) e ne ha affidato la duplice regìa a Vittorio Borrelli. Che dell’atto unico di Zemlinsky dal ferale epilogo ha ottimamente colto l’esprit, evidenziando l’ambiguità del protagonista, il mercante Simone, la sua untuosa accondiscendenza nei confronti del principe Guido Bardi, fin dall’esordio. E tutti a domandarsi, già dall’efficace coup de théâtre iniziale (porre lo stesso Simone di schiena, in casa propria al cospetto della moglie, Bianca, e di Guido che amoreggiano, anziché farlo giungere all’improvviso mentre i due amanti si ricompongono) se davvero egli sia così accecato dall’avidità di guadagno da negare perfino a se stesso l’evidenza del tradimento e della tresca.
In realtà, attraverso le pieghe del libretto dall’indubbia efficacia drammaturgica, ben presto il personaggio emerge a tutto tondo, se ne apprezza l’ironia, il sarcasmo beffardo, nel gioco allusivo delle argomentazioni, ora politiche, ora sul senso della morte, ora sull’eros, e poi l’invito a suonare il liuto ed a brindare insieme giù giù sino al fatale duello, innescato un po’ per gioco e un po’ per sfida o per astuzia: entro un’atmosfera febbrile e visionaria, in un climax emotivo, sino al fatale actus tragicus con la duplice uccisione di Guido e (quanto meno in questa edizione dell’opera) della stessa Bianca vistosamente strangolata (laddove il libretto non lo prevede e si chiude su un appassionato bacio). Una regia che ha per chiave di lettura – ce lo confida lo stesso Borrelli nel corso di una breve intervista informale – l’idea di un certo perverso voyeurismo da parte di Simone, unitamente ad un desiderio feroce di vendetta e di annientamento. Ecco allora quel suo comparire a fondo scena (in realtà l’allusione è al giardino, luogo dell’irrequieta passeggiata del mercante) mentre i due nuovamente amoreggiano e si dichiarano reciprocamente il disprezzo nei confronti Simone.
Superba la prova dell’ottimo Mark S. Doss per credibilità scenica e, più ancora, grazie alla sua vocalità di primissimo livello, sicché ha dominato incontrastato entro una partitura di sfuggente e pur fascinosa bellezza timbrica, decadente e raffinato contraltare sonoro dello Jugendstil come un fregio di Klimt, in bilico tra affettuosa intimistica tenerezza, trasporti amorosi ed empiti sinfonici (una partitura debitrice alquanto alla straussiana Salome, un occhio speciale a Mahler, ma con una cifra tutta sua). Gli ha tenuto testa ottimamente Zoran Todorovich (tenore) nei panni di Guido Bardi dal tono per lo più di altezzoso scherno. Benino anche Ángeles Blancas Gulín (dalla parte invero esigua e dal lirismo appena latente) peccato che la sua voce sia stata per lo più soverchiata dall’orchestra, per la maldestra direzione di Stefan Anton Reck sempre eccessivamente tesa e interessata (solo) ad evidenziare clangori ed atmosfere dinamicamente corpose, sacrificando tutto il gioco dei ricami e le preziosità dell’orchestrazione. Molto efficaci le cupe e claustrofobiche scene a cura di Saverio Santoliquido e Claudia Boasso, con quelle opprimenti alte librerie ai lati a rendere il senso di hortus conclusus in cui si consuma la tragica vicenda: l’essenzialità di un tavolo, un divano, citazioni colte dall’arte pittorica di certo espressionismo e un plauso speciale a luci ed effetti video di Vladi Spigarolo (la pioggia dietro alla vasta vetrata che ricorda certi scorci sghembi della cinematografia tedesca stile Gabinetto del dottor Caligari, poi le nuvole e in fine una luna piena che però si tinge simbolicamente di rosso sangue). Applausi convinti pur da parte di un pubblico non particolarmente folto (e pazienza per chi si è perso quest’occasione preziosa).
Poi il trionfo di Gianni Schicchi. Mattatore di gran classe Alessandro Corbelli dalla credibilità vocale e scenica a dir poco irresistibili, affiancato da un cast di ottimo livello complessivo e davvero affiatato – Francesco Meli (Rinuccio), Serena Gamberoni (Lauretta, meritatamente applaudita nell’inossidabile «Oh mio babbino caro») e ancora Silvia Beltrami, Luca Casalin, Maria Radoeva, Fabrizio Beggi, Gabriele Sagona, Marco Camastra, Laura Cherici, Alessandro Busi, Ryan Milstead, Giuseppe Capoferri (per i vari parenti, notaro, medico e via elencano e il figurante Paolo Vettori nella parte del ‘morto’), nonché la voce bianca di Anita Maiocco. Anche in tal caso Borrelli si è rivelato regista intelligente e colto, molte le spassose gags, ma sempre con equilibrio e charme, più ironia e raffinato divertissement, nello sbozzare l’avidità indecorosa dei parenti del povero Buoso (validi e funzionali i costumi di Laura Viglione, come già nella Tragedia), che non comicità grassa come talora accade. Anche in questo caso la direzione “tedesca” di Stefan Anton Reck ha destato parecchie perplessità. Non tanto nello stacco dei tempi (taluno lo lamentava, ma non ci è parsa così vistosamente negativa) quanto negli equilibri sonori; si sarebbe voluto più lavoro di cesello, di bulino, più delicatezze, più eleganza, in una parola più ironia; sicché quella stessa ironia che nel libretto di Forzano gronda ad ogni verso e che sul lato registico e così pure vocale s’è potuta apprezzare al meglio, è invece in buona parte mancata sul versante strumentale. Un plauso, peraltro, all’orchestra dalle ottime prime parti (assai apprezzate in Zemlinsky) che ha fatto del proprio meglio.
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