Juraj Valčuha dirige a Torino con coerenza e saldezza la seconda sinfonia del compositore austriaco
di Attilio Piovano
GRAN BELLA ESECUZIONE quella della Seconda di Mahler, detta Resurrezione, a cura dell’OSNRai, a Torino, le sere di giovedì 13 e venerdì 14 marzo, presso l’Auditorium Toscanini, per la direzione di Juraj Valčuha. Orchestra in gran forma, affiancata per l’occasione dal Coro Maghini (maestro del coro Claudio Chiavazza) e dalle voci soliste del soprano Malin Hartelius e del mezzosoprano Michelle Breedt. Sinfonia dai vasti assunti e dallo sterminato organico insolitamente dilatato (tra gli strumenti inconsueti perfino la frusta, campane, tam-tam, l’organo e trombe, corni e percussioni in lontananza) che Valčuha ha diretto con mano salda e coerente visione interpretativa cogliendone al meglio il significato di toccante riflessione sui temi della morte (specie il primo tempo intitolato originariamente Totenfeier, rito funebre) e del post mortem cui allude il maestoso e magniloquente Finale. E allora subito Valčuha ci ha condotto in medias res affrontando quell’esordio epocale, icastico e drammatico, teso e lacerante, con l’indimenticabile frase dei contrabbassi in apertura, un incipit fatalistico cui seguono minacciosi rintocchi, ma poi ecco l’oasi lirica di una zona che pare un mirifico anticipo dell’Adagietto della futura Quinta, risucchiato da reboanti fanfare, quindi il viraggio verso un colore cupo, sinistro. E c’è spazio per un corale, una marcia stranita, un disegno idillico impregnato di Sehnsucht e affidato alle sonorità pastorali del corno inglese. Tutti elementi che Valčuha ha ben evidenziato facendoli poi collidere vistosamente nel tratto in cui la Sinfonia assume toni apocalittici e catastrofici, con schianti incredibili e inaudite sonorità rese ancor più impressionanti dall’organico amplissimo. Per contro sono emerse stranite e diafane le zone cameristiche e giustamente spettrali in non pochi passaggi. Una lettura ammirevole per coerenza e saldezza, e il culmine emotivo poco prima della ripresa con quel parossistico più che fortissimo che scuote nel profondo l’animo dell’ascoltatore.
Dell’Andante Moderato Valčuha ha cesellato con grazia le delizie melodiche e quel tono da Ländler soavemente melanconico, ma anche qui non mancano i trasalimenti e le zone opache, perfino accigliate. Avremmo voluto un po’ più di charme negli archi, ma le sonorità lievemente aspre rientravano certo in una precisa scelta interpretativa, giù giù sino al pizzicato della parte terminale, come di inquieta Serenata. Momenti di grande emozione nel terzo tempo, ossessivo e inarrestabile, del quale Valčuha ha evidenziato il lato grottesco, livido, allucinato e sinistro come nei quadri di Bosch, sino al momento dell’immane conflagrazione. E pazienza per qualche lievissimo sbandamento ritmico, qualche frase non perfettamente in asse (tale la difficoltà del tutto). Poi ecco l’apparizione della voce umana in Urlicht (La luce primigenia) col bel testo tratto dalla miniera inesauribile del Wunderhorn. Voce ben timbrata quella di Michelle Breedt con appena qualche disomogeneità nel grave. È emerso al meglio il carattere estatico, quel senso di rarefazione che la partitura sprigiona, sorprendentemente in anticipo rispetto alla Quarta (La vita celestiale).
Da ultimo l’amplissimo Finale che muove bensì da sonorità remote facendosi ben presto turgido e altisonante, con gli appelli degli ottoni, gli immani clangori, i frammenti del Dies Irae che galleggiano come in un magma incandescente, circonfusi dal martellare delle campane. E ancora: il suggestivo effetto di trombe, corni e percussioni ‘lontane’ (fuori scena), quindi l’ingresso della voce (ottima e apprezzata Malin Hartelius) e il coro che con le sue frasi suggella la Sinfonia dal significato misterioso e metafisico, ma anche pacificante e fiducioso; e quel che di ultraterreno e radioso: del finale costituisce il motivo di maggior fascino. Sul dolore e sulla morte trionfa la vita («Risorgerai, sì risorgerai, tu, mio cuore in un istante / Ciò che hai sconfitto a Dio ti condurrà») ed è l’apoteosi con il luminescente sfolgorare del coro il cui lirismo svetta sovrastante sulla pasta dell’orchestra. Protratti e commossi applausi al termine di un’interpretazione di livello: gran festa per tutti (più che meritata: le ottime prime parti, ma non solo) e un plauso speciale a Valčuha – anche e soprattutto laddove i materiali eterogenei di cui è costituita la Seconda talora inducono (pericolosamente) al frammentario – per aver saputo al contrario coagulare il tutto in una convincente e assai organica visione.
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