
Il Maggio Musicale Fiorentino onora Gluck con un essenziale allestimento di Denis Krief e con una specialistica lettura di Federico Maria Sardelli. Valida la compagnia di canto, capitanata da Anna Bonitatibus
di Francesco Lora
PER CHI SEGUIE GLI ANNIVERSARI, il 2014 è anche il trecentesimo anno dalla nascita di Christoph Willibald Gluck, eroe della storia della musica e tuttavia più citato nei libri che presente sui palcoscenici. A parecchi teatri, non esclusi quelli di città gluckiane come Vienna e Parigi, la ricorrenza è sfuggita; per il 2015, così, si annunciano sontuosi atti di riparazione, per esempio un’Alceste al Teatro La Fenice di Venezia (regìa, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi) e un’Iphigénie en Tauride al Festival di Pasqua di Salisburgo (con Cecilia Bartoli e Diego Fasolis). Il Maggio Musicale Fiorentino è invece arrivato puntuale, con occhio vigile al portafoglio ma licenziando uno spettacolo degno della sua varia e ricca rassegna: ecco dunque quattro recite di Orfeo ed Euridice (8-15 giugno), titolo presentato nella sua versione originale (Vienna 1762) con un gruppo d’artisti capaci di cavare il meglio dalla scarsezza di risorse.
Famoso è, in questo senso, Denis Krief. Come suo solito, egli firma tutt’insieme regìa, scene, costumi e luci, dota il palcoscenico del minimo indispensabile, abbiglia solisti e coro con pratici vestiti piuttosto che con costumi elaborati, lavora molto con i cantanti per assicurare una recitazione sciolta, coerente e pregnante. Concettualmente è uno spettacolo che null’altro vuol presentare se non l’opera di Gluck anziché una sua reinvenzione registica. Visivamente è uno spettacolo asciutto, dove però ogni cosa ha un senso e – distillata com’è col contagocce – si impone con forza particolare: quando, pur non potendosi guardare in volto, i due protagonisti possono di nuovo toccarsi, la commozione di quel momento, amorosamente fisico a dispetto dell’oltretomba, fa fremere in un sol tempo palcoscenico e sala teatrale, e parola e gesto e musica.
La concertazione è posta al sicuro nelle mani e nel pensiero di Federico Maria Sardelli, uno tra i rari signori della filologia a essere sia musicista sia musicologo, capace dunque di operare scelte logiche e autorevoli, a lungo termine, anziché capricciose e traballanti, in balìa delle mode. Per lui non è un problema dover rinunciare agli strumenti originali della sua ensemble Modo Antiquo e porsi alla testa di Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino: anche senza le corde di budello e gli ottoni naturali, timbri e fraseggi di quello strumentale d’acciaio e di quelle voci appoggiate e gagliarde si lasciano stemperare nel threnos carezzato dai cornetti, nella tagliente terribilità di inferi classicheggianti e nel pastello rococò delle scene campestri. La giusta prospettiva, non ancora assodata per il pubblico italiano, è così ristabilita: si ha qui un Orfeo ed Euridice filtrato attraverso Hasse anziché attraverso Wagner, e dunque cangiante di timbri ma anche aguzzo di gesti, e pronto a indugiare nel cantabile quanto a scattare veloce nei passi di furia o di gioia. Provvidenziale è infine il raffronto dell’edizione critica corrente, ormai vetusta, con la sua fonte ancora passibile di emenda: grazie agli scrupoli di Sardelli si ritrova la giusta strumentazione di interi passi, nonché trombe e timpani accolti nel coro finale (come sarebbe azzardato fissare per iscritto in un’edizione, ma come anche è lampante vada fatto in sede esecutiva).
Corsa in extremis a sostituire Ann Hallenberg, Anna Bonitatibus presta a Orfeo non tanto l’agio di scendere agli abissi contraltili, ma sicuramente il timbro caloroso e fiorito, la morbidezza della pronuncia e la facilità di modulazione derivata dalla frequentazione di Händel e Rossini. L’Euridice di Hélène Guilmette suona luminosa e incisiva, mentre un piccolo capolavoro è l’Amore di Silvia Frigato, che al mobile realismo della figuretta fanciullesca sa unire il fascino di un fraseggio erudito e di un’emissione radiosa; per la prima volta fa accorgere chi scrive di quell’ultimo verso di recitativo che le spetta («Compensa mille pene un mio contento»): detto con quella punta di vanitoso brio, interprete e deus ex machina sprezzano il comprimariato e prendono spazio nella memoria.
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