È morto ieri il pianista e compositore italiano, protagonista trasversale delle poetiche musicali, jazzista pluridiplomato e avversario dei generi, snobbato (in Italia) dalle élite dell’avanguardia
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Il mio «insopportabile amico» è probabile che sia morto
di Giampiero Cane
NON PRENDETELA COME UNA BATTUTACCIA, vuol solo essere un segno in estrema sintesi del protagonismo che Giorgio Gaslini ha sempre sfoggiato. Non sappiamo di che sia morto, ma ci auguriamo che se ne sia potuto andare tranquillamente, senza la persecuzione dei talebani della vita, preti o medici che siano. Giorgio è stato un Io irrefrenabile. E per questo veniva preso in giro un po’ da tutti, comunque alle spalle. Non saprei di uno che glie l’abbia detto, ma ci sarà stato in ottantacinque anni di vita. Nel caso mi piacerebbe proprio sapere come il musicista l’abbia presa. Comunque, di fatto, è stato probabilmente il jazzman italiano più noto all’estero. In patria la sua fortuna è stata grande, ma anche sempre e continuamente dimenticata. Non saprei dire perché. È probabile gli sia stato nocivo quel tocco di münchhausen che fluiva nel suo cuore.
Come musicista ha avuto una carriera piuttosto lunga che iniziò nel 1945 con Gil Cuppini, per decenni il batterista italiano, e Gino Stefani, suo coetaneo, negli anni Sessanta e Settanta semiologo della musica nel Dams di Bologna. Dodici anni dopo, durante la seconda edizione del festival del jazz di Sanremo, fece discutere i quattro gatti del mezzo mondo jazzofilo con Tempo e Relazione, opera che fu fra le prime a mescolare il jazz con la dodecafonia, allora molto di moda in quanto musica antifascista, antinazista e non del tutto nascostamente filo ebraica. Quel che ne scrissi a suo tempo in Canto nero non vale ormai un’acca, ma mi dava fastidio qualcosa che poi s’è venuto precisando e che qui esporrò in omaggio a Gaslini, per contrastare le sue teorie, come spesso ho fatto, senza avversione, ma stimandolo.
Tempo e Relazione: in realtà lì sono le radici del pensiero di Giorgio Gaslini esposto in seguito nella sua musica e nel libretto (tale per dimensioni) Musica Totale pubblicato da Feltrinelli nel 1975. Che gli artisti, se non ne hanno voglia non facciano musica di genere è l’asserzione di base. Dovrebbe conseguirne che i generi siano roba da faccendieri, discografici, editori, parassiti radiofonici e televisivi, ma non è detto soprattutto perché il pubblico utilizza i generi come primo strumento di riconoscimento e individuazione, ma anche per altre ragioni che di qui a un po’ si cominceranno a intravedere.
Gaslini non veniva al jazz dal dilettantismo o da un apprendimento solo pratico della musica. In conservatorio aveva collezionato diplomi e forse era
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Con Shakespeare in cerca di un «così dolce tuono»
di Alfonso Alberti
ERA PARTICOLARISSIMA, LA SUA RISATA. Negli indimenticati pomeriggi durante i quali faceva dono di sé, dei suoi incoraggiamenti e della sua generosità, Giorgio Gaslini amava commentare con una risata che conteneva persino una nota di incredulità alcuni luoghi delle sue partiture dove gli pareva di averla “fatta grossa”. Non per épater le bourgois, o per sterile provocazione; no, piuttosto, avendo assecondato una disposizione giocosa già presente nelle cose di questo mondo, che amano mescolarsi, nascondersi, camuffarsi.
In uno dei suoi ultimi brani per pianoforte, Nella foresta degli alberi sonanti, Gaslini si era lasciato sedurre da un passo del Sogno di una notte di mezza estate (capolavoro di intrecci e camuffamenti) in cui si legge «non avevo mai udito una discordanza più musicale, un così dolce tuono». E seduto al pianoforte del suo studio milanese voltava le pagine della partitura e indicava, uno dopo l’altro, i grandi del jazz che in maniera un po’ impertinente avevano deciso di ricreare quella «discordanza» e quel «così dolce tuono» – guarda un po’ – proprio nel suo pezzo, e che ora facevano capolino in quel tale o talaltro passo.
Un gioco serissimo, per lui, la musica, e purtuttavia ancora un gioco. «Senti? Qui sono i dodici rintocchi della mezzanotte, perché è a quell’ora che Mimmo Rotella perlustra le strade, e ora ecco che di soppiatto… [qui Gaslini mimava una lacerazione] strappa il manifesto e lo porta nel suo studio». Nelle Piano sonata décollage e in altri luoghi della sua ultima produzione (soprattutto non jazzistica: a questa ricerca “pura”, che sempre aveva accompagnato il suo percorso, stava dedicando oramai la totalità delle sue energie) non esisteva, per lui, la paura di un elemento naïf. In primo luogo perché l’intellettualismo gli era estraneo. In secondo luogo, perché quei rintocchi e quegli strappi, in principio così naïf, diventavano subito astratti: immagini semplicissime che, appunto perché tracciate con pochissime linee, diventavano puro simbolo. «E questi sono Gianni e Pinotto», diceva: ma sulla carta c’era una semplice nota ribattuta, e lì di nuovo spuntava la sua risata, che sfidava l’interprete, con quel paio di note, a ricreare tutto un mondo di visioni.
Il grande creatore non dimentica l’ironia. Anche grazie ad essa, nel suo lungo e straordinario percorso, Giorgio Gaslini ha potuto esplorare tutti i toni dell’umano, mai stancandosi di indagare il segreto di queste strane creature che siamo noi stessi. •
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più noto in un ambiente accademico-classico che non nel jazzistico che, a metà degli anni Cinquanta, contava su un pubblico non più che minimo solo in poche città e in un assai modesto numero di club. Probabilmente Antonioni, chiamandolo col suo ensemble a partecipare con la propria musica al film La notte (1961) contribuì non poco a far crescere la conoscenza del nome di Gaslini. È musica di scena, quella di quel film; è probabile che corrisponda assai più a quel che serviva al regista che non al pensiero creativo del musicista.
Nel corso di quel decennio inaugurato in pellicola registrerà molta della sua musica migliore con Oltre (1963), Ricordando Dolphy (1964), Nuovi Sentimenti (New Feelings) (1966), e infine Colloquio con Malcolm nell’ultimo anno del decennio (1970), che è un teatro jazz che solo più tardi giungerà al disco.
Durante quest’evoluzione la sua vicinanza al Free è segnalata anche dalle collaborazioni che vedono partecipi ai lavori gasliniani musicisti quali Roswell Rudd, Eddie Gomez, Paul Rutheford, Jean-Luc Ponty, Anthony Braxton, i quali sono tutti alfieri del free jazz. Egli sta però maturando l’idea che aveva avanzato nel festival di Sanremo del 1957, quella di possibili sintesi tra musiche catalogate come di diverso genere. Gaslini non credeva al “genere”, una “trovata” del sistema, come non credeva all’improvvisazione, la musica si deve scrivere, come dice la prima pagina di Musica Totale.
A questo punto egli ritiene che «oggi l’unica cultura possibile è quella dell’aprirsi all’apporto di tutte le culture», cosa promossa secondo lui dal sistema, che dopo la trovata dei “generi” si rilancia in quello dei “gruppi” rock-jazz-folk-elettronici, fonte della “fusion”, di musiche per le quali si lavora addizionando i materiali, ma senza nemmeno tentare una sintesi. Egli sembrerebbe voler fare però qualche eccezione: «se si esclude qualche raro caso (Bitches Brew di Miles Davis ad esempio) in tutta la musica di questi gruppi i vari mondi musicali diversi (jazz, rock, folk, classico) vengono accostati tra loro in una successione puramente esteriore, anche se fonicamente efficace». Perché faccia un’eccezione per Davis è reso comprensibile solo da un apprezzamento per il trombettista, che è persino amore, direi, che gli impedisce di vedere come, siano quel che sono le sue qualità, egli sia anche un accanito avversario del bop progressivo, nell’agone culturale un musicista reazionario. È qualcosa che appare evidente ad Alex Ross, occhio disincantato, ma che crea crisi di rigetto nei jazz fan, accecati dalla qualità sonora, perduti nel fascino delle mille-e-una-notte e della danza del ventre della tromba di Miles.
Giorgio Gaslini però vede forse nella sua musica realizzarsi un bagliore di quella “totale” cui aspira. In realtà l’idea di musica totale è insieme insensata e comune. Tale, comune, è perché nasce come idea che per fare la propria musica uno possa usare tutto quel che ha incamerato (ma non accade che più hai incamerato, migliore è, per questo, la tua musica). Insensata perché se pensi di poter fare della musica di qualità perché ci metti dentro insieme alla scala tonale, il raga e magari anche la dodecafonia o risulterai un genio per cui dopo di te la musica sarà qualcosa che non era mai stata prima e sei da ricoverare. In giro per il mondo, Gaslini ne ha fatte di tutti i colori: ha fatto musiche femministe, musiche cinesi, musiche operaie, ma non mi sembra ne abbia fatte di ospedaliere. Non necessariamente era uno showman, ma spesso nemmeno un artista, piuttosto un politico. I movimenti a quanto pare gli andavano tutti bene. Questo mi mise in sospetto sulla qualità riflessiva del suo procedere. Ma non c’è niente di male in ciò. Immobili e immutati sono solo le chiese e (tolto che per l’espandersi) i cimiteri. L’agitarsi di contro può essere rappresentato col ballo di san Vito, affatto inutile (e inconsapevole) frenesia.
«Mi sono morto»: penso che così abbia rimuginato lasciandoci. Qui ho scritto poche cose delle molte ch’egli fece (la scuola di jazz a Roma, per esempio, la prima istituzionale in Italia); non ho ricordato finora come fosse anche un direttore d’orchestra di buona qualità (non so perché, ma mi viene alla mente d’aver apprezzato musica di Valentino Bucchi, non so quale, da lui diretta). Dovessi imputargli un’assenza, sarebbe per gli altri States, quelli non del jazz: Ives, Nancarrow, Feldman, Cage e la solita sequela. Non è mai successo che ne parlassimo, ma a Milano io fui invitato almeno un paio di volte a incontri con Cage, l’ospite era la fantastica coppia Lelli Masotti, “il maestro” non c’era mai. Forse s’era fatto un po’ mummia come un altro “il maestro” che imperversava in altri territori.
Che dice il coccodrillo? Che la musica piange? Chissà. Personalmente (coloro cui del mio personale nulla interessa, mi scusino) piango la morte di una persona che non mi era simpatica, ma della quale ero amico anche nei difetti. Credo ch’egli mi chiedesse di usare un mio breve scritto per le note di copertina di un suo disco su Monk. Ritengo ch’egli capisse, unico allora tra i musicisti del jazz, come e di quanto Monk sopravanzasse Davis. Non saprei se ne abbiam mai parlato, ma di quel ch’era Milano all’epoca dei concerti alla Statale sì, e della contrapposizione (posta in Canto nero) tra lui e Schiano, non di persone, ma di idee e processi: di questo sì. A questo punto aggiungerei solo che Jonny Costantino è la sola persona che nel corso del 2013 m’ha detto di aver parlato con lui. Non mi pare che il colloquio sia apparso in Rifrazioni. Se così è, mi piacerebbe invece leggere le penultime parole dell’insopportabile amico che era Giorgio Gaslini.
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