A pochi giorni dalla scomparsa di uno degli interpreti verdiani più significativi del Secondo dopoguerra, pubblichiamo un ritratto ed un ricordo del tenore
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L’eleganza dolente e austera fu la sua cifra personale
di Francesco Gala
BISOGNA IMMAGINARE UN APPASSIONATO d’opera lirica, poco più che ventenne, messo difronte alla possibilità di ascoltare, dal vivo, la voce di uno dei grandi tenori della seconda metà del Novecento, ancorché ormai al termine di una lunga carriera. Era il 1 gennaio 2000 quando Carlo Bergonzi si esibì al Teatro Strehler di Milano in un recital di canto; era affiancato dal soprano Adriana Marfisi ed accompagnato dall’Orchestra Filarmonica di Bergamo diretta da Nello Santi. I biglietti si vendevano a prezzi proibitivi. Ma l’occasione era ghiotta, tanto più che in quegli anni i titoli del repertorio un tempo frequentato dal grande tenore emiliano erano appannaggio, nel massimo teatro milanese, di José Cura – clamorosa antitesi del buon canto – e dell’arte acerba (tale, purtroppo, rimase) di Salvatore Licitra.
Il 2000 era l’anno per Bergonzi della “pazzia” di Otello, uno dei pochi titoli verdiani che il tenore non aveva ancora affrontato; intorno a quella scelta molto si scrisse e si pronunciarono, ricordo, anche parole decisamente fuori luogo. È certo, col senno di poi, che il tenore – la cui carriera era iniziata sulla corda baritonale (diciotto titoli fra il 1947 e il 1950) – ben fece a non pensare di ricalibrare nuovamente la propria voce per prolungare – come altri – una carriera agli sgoccioli, preferendo invece indirizzarla verso quello che, se si vuole essere severi, fu solo un peccato di vecchiaia.
Le sue interpretazioni guadagnarono quella straordinaria tensione interna che, all’ascolto, non lascia tregua all’orecchio
Nel programma del recital milanese, figurava anche «Ah sì, ben mio», la pagina più attesa della serata. Consumate le risorse della natura, Bergonzi si mostrava qui come un libro aperto: la radiografia di un canto eccezionale, fondato su una tra le migliori tecniche di fonazione estesamente documentate dal disco. Il risultato era, anzitutto, quello di un artista che si divorava la sala (allo Strehler l’acustica rimane particolarmente problematica); specialmente nelle note sopra il passaggio di registro, la voce di Bergonzi correva ampia e sonora, proiettatissima. E, nella cadenza, una tale proiezione riuscì persino a supplire alle carenze di un timbro ormai logorato; tanta era, infatti, la risonanza del mezzo nella sala da conquistare gli armonici, vibrando libera nello spazio. Avevo riscontrato la stessa qualità con voci di timbro nettamente più chiaro, quali quelle di Luciano Pavarotti e di Alfredo Kraus, anche alla Scala, dieci anni prima. Ma un mezzo di questo tipo, che nel centro ancora si distingueva per le screziature baritonali, risultava per me, insomma, una vera rivelazione capace di dare la misura di un passato glorioso; quello che sulla tecnica edificò sempre l’interpretazione. Fu sorprendente soprattutto per chi, cresciuto coi dischi dei grandi artisti, si ritrovava in teatro – come oggi – davanti a molti saggi di malcanto allestiti da voci ingolate, tenori di sforzo e assidui frequentatori del proprio naso.
Intatta era qui, invece, la lezione di un Manrico poeta, aristocratico, animato da quell’eleganza dolente e austera che fu sempre la cifra personale di Carlo Bergonzi: un’oratoria incisiva, vibrante proprio perché sorvegliata e calibrata al centimetro. Si riconosceva ancora, in quella tarda interpretazione del Maestro, la civilità del canto legato e i portamenti – ai quali nella seconda parte della sua lunga carriera fece sempre troppo ricorso (come anche a certi suoni dritti della gamma acuta) – non inficiavano una linea di canto che si manteneva, nel complesso, dolce e flessibile. Intatto, per davvero, era l’accento; il famoso accento verdiano di Bergonzi che si riconosceva ancora in frasi quali «il braccio avrò più forte» e «a te il pensier verrà». Gli applausi furono fragorosi e sembrarono interminabili; sinceri e sentiti, niente affatto un semplice tributo al glorioso nome dell’artista.
Sotto il segno di Verdi. Si potrebbe definire così, in estrema sintesi, la parabola biografica di Bergonzi, nato il 13 luglio 1924 a Vidalenzo di Polesine Parmense e dunque conterraneo del Maestro di Busseto al quale lo avvicinano anche gli umili natali, ma pure una coincidenza cronologica. Nel 1951 ricorreva, infatti, il cinquantenario della morte di Verdi e alla radio si davano parecchie opere del grande compositore. Era quello l’anno per Bergonzi del passaggio al registro tenorile e del suo debutto, nel ruolo eponimo, in Andrea Chénier, a Bari (poi Maurizio in Adriana Lecouvreur). Agli esordi veristi seguirono, proprio nel ’51, tre titoli del catalogo verdiano meno frequentato: Giovanna d’Arco, I due Foscari e Simon Boccanegra (debutto anche nel mondo discografico).
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«Damerini, domani alle 10 in sala con Bergonzi»
di Massimiliano Damerini
NEL 1972, GIOVANISSIMO E FRESCO DI DIPLOMA di pianoforte, venni assunto dal Teatro Comunale dell’Opera di Genova presso il Teatro Margherita (il Carlo Felice venne ricostruito solo vent’anni dopo), in qualità di Maestro collaboratore. Allora ero ancora indeciso sul mio futuro: nonostante iniziassi la mia carriera come pianista, ero molto attratto dalla direzione d’orchestra, opera compresa, e la possibilità di studiare il funzionamento e la messa in scena di uno spettacolo dall’interno era un’occasione da non perdere. La mia capacità di leggere a prima vista, che mi ha sempre accompagnato in tutti questi anni, contribuì non poco a convincere la direzione del Teatro.
Una delle prime opere in cui svolsi il ruolo di Maestro di sala fu Luisa Miller di Verdi. A pensarci oggi il cast era da produzione discografica: Carlo Bergonzi, Aldo Protti, Rita Orlandi Malaspina, direttore Giuseppe Patanè. Il mio ricordo del grande Bergonzi inizia qui. Sala prove del Teatro Margherita, teatro di rivista prestato all’opera, nel quale le maestranze facevano veri miracoli in spazi microscopici. Un pianoforte verticale, buono, ma non certamente a livello di un coda. Arrivo per una prima prova serale e conosco la compagnia, e il Maestro, di cui ricordo ancora la straordinaria simpatia napoletana, nonché la memoria prodigiosa (tutte le prove a memoria, compresi i numeri di riferimento della partitura da cui ripartire dopo le osservazioni).
Patanè ci avvisò che Bergonzi, essendo da poco atterrato da Vienna, dove la sera prima aveva cantato, sarebbe arrivato con un leggero ritardo. Iniziammo, quindi, a leggere il primo atto, alla fine del quale si aprì la porta ed entrò Carlo Bergonzi. Ero molto eccitato di conoscere uno dei più grandi tenori della storia: i miei genitori erano grandi appassionati d’opera e a casa avevamo moltissime sue incisioni. Di statura piccola, molto semplice e schietto, come sanno essere gli emiliani, salutò tutti e si scusò enormemente sia per il ritardo, sia per il fatto che avrebbe cantato non perfettamente in voce, a causa della recita della sera prima e del viaggio. Patanè rispose che non c’erano problemi, l’importante per lui era capire le esigenze vocali di tutti e suggerire i tempi che avrebbe staccato in recita.
Eravamo dunque giusto all’inizio del secondo atto: recitativo e aria «Quando le sere al placido». Bergonzi esordì proprio con l’aria più famosa dell’opera. Cantò un recitativo estremamente espressivo, ma quando attaccai le sestine d’accompagnamento dell’aria su quel pianofortino, successe qualcosa che da allora non ha mai abbandonato la mia mente. Bergonzi cantò tutta l’aria a mezza voce, dal pianissimo al mezzoforte, con un fraseggio e un legato così struggente che mi sembrò di accompagnare un Lied di Schubert. Costrinse anche me a trovare un suono adatto, dolcissimo, su quel dannato strumento. Feci fatica a trattenere le lacrime, fu quell’emozione che solo i grandissimi possono dare, e quella volta eravamo solo noi nella sala: il Maestro, la compagnia, il suggeritore ed io al pianoforte. Ricordo che durante le recite davo una mano in palcoscenico per le entrate del coro e delle comparse. Ma al momento dell’aria stavo ogni volta ad ascoltare dietro le quinte: era una lezione di stile che valeva più di anni di conservatorio. E tuttavia devo ammettere che, nonostante la bellezza e lo stile di ogni recita, solo quella sera in prova la cantò in maniera così straordinariamente struggente.
Alla fine della prova Bergonzi fece chiamare il direttore di palcoscenico, che scrive anche l’ordine del giorno per le prove e le recite. Disse una cosa alla quale era difficile credere. Fino ad allora non aveva mai cantato Luisa Miller in recita, l’aveva soltanto incisa per la RCA alcuni anni prima, diretta da un direttore poco noto ma straordinario, Jonel Perlea. Aveva dunque bisogno, a ridosso delle prove di scena e giusto per un paio di giorni, di un maestro collaboratore per controllare la memoria. Il direttore di palcoscenico indicò me, e poi disse: «Damerini, domani alle 10 in sala con Bergonzi».
L’indomani, sull’ordine del giorno, spiccava questo testo: ore 10 – Sala prove – Artista Bergonzi – Maestro Damerini. Quella mattina arrivò puntualissimo, con spartito e matita rossa e blu. Mi salutò serenamente – quanto sono semplici i veri grandi! – ed iniziammo a scorrere la sua parte. Ogni tanto attaccava in anticipo oppure in ritardo, e non sapevo che fare. Era la prima volta che lavoravo a tu per tu con un grandissimo, e avevo solo ventuno anni. Allora fu lui a sbloccare la situazione. Mi disse, con quell’accento di Parma che era la sua caratteristica: «Maestro, così non va mica bene! Io mi accorgo che sbaglio. Lei mi fermi e mi dica cosa devo correggere, altrimenti questa prova non serve». A quel punto gli chiesi di riprendere tutto da capo e lo interruppi ad ogni errore, che puntualmente sottolineava col suo matitone sullo spartito. Superai perfino un’esagerata timidezza e gli feci notare una nota calante. Lui provò e riprovò fino a che non venne precisa. Alla fine delle due mattinate di prova mi strinse la mano e mi ringraziò. Lavorai solo un’altra volta con lui due anni dopo. Cantò Ernani sotto la direzione del grande Francesco Molinari Pradelli. E fu un’altra lezione di stile.
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Carlo Bergonzi divenne presto la voce verdiana per antonomasia del Secondo dopoguerra; seguirono i debutti alla Scala (1953) e al Metropolitan (1956), all’insegna di una carriera tra le più limpide nella storia dell’opera lirica: una vicenda costruita in palcoscenico con serietà, umiltà e schiettezza, doti umane che si sommavano a quelle dell’artista. Il paragone con Aureliano Pertile, modello dichiarato dallo stesso Bergonzi, rimane una costante quando si vogliano definire i tratti salienti della sua vocalità: l’eloquenza dei recitativi, la voce morbida e duttile al servizio di un fraseggio di eccezionale varietà, l’uso della mezzavoce e, soprattutto, la magistrale gestione del passaggio di registro.
Non certo per l’aspetto né per la lucentezza giovanile del timbro; ma, ad alcuni, l’arte di Bergonzi continua a ricordare per sicurezza d’accento e voce insinuante nelle smorzature e nei piani quella di Giuseppe Anselmi, altro tenore campione nell’interpretazione di «Quando le sere al placido». Trascurando per un momento i riferimenti al passato più remoto – ai quali tornerò tra breve – Bergonzi fu il tenore che non scandì mai, neppure una frase, in modo esagitato; lontano mille miglia dal canto verista (anche quando fu Canio e Turiddu), mai picchiò a martello sull’articolazione ma “cantò sempre”, fu sempre nella musica.
È in questo modo che le sue interpretazioni guadagnarono quella straordinaria tensione interna che, all’ascolto, non lascia tregua all’orecchio, catturato dal fluire ampio, continuo e altero del suo canto. Non ho mai pensato che queste caratteristiche limitassero la gamma espressiva di Carlo Bergonzi o che uniformassero ad uno solo i tratti dei personaggi da lui impersonati. La sua fu, infatti, sempre un’oratoria adeguata all’essere tenore lirico ottocentesco, consono a vestire – soprattutto – i panni di nobili e guerrieri (meno, si sa, gli amorosi pucciniani); ma è forse meno nobile il suo Nemorino, sempre affettuoso ed umanissimo? La padronanza dello stile ottocentesco lo condusse sulla retta via nella definzione vocale dei personaggi scelti con oculatezza estrema e interpretati con precisione analitica dei segni sullo spartito; con
Carlo Bergonzi il concetto di stile assume il suo autentico significato, lontano anni luce da stilismi e maniere che nulla hanno da spartire con il grande canto. Capacità di “dire”, di essere campione nel fraseggio alto e nobile richiesto dalla scrittura tenorile verdiana (ma anche da ruoli precursori quali Pollione ed Edgardo, nei quali eccelleva), Bergonzi possedeva nel proprio canto quella «lieve enfasi» che, come ci ricorda Celletti, si addice massimamente a Verdi.
Di volta in volta, le interpretazione verdiane del Maestro, nei migliori risultati – Un ballo in maschera, Simon Boccanegra, Don Carlo, La forza del destino, Aida, Ernani (e tanti titoli composti negli anni Quaranta e Cinquanta dell’Ottocento) – restituiscono ed esaltano alcune fra le più lodevoli caratteristiche dei primi interpreti. Pensiamo, soprattutto, a quanto fosse congeniale a Bergonzi la scrittura del Fraschini seconda maniera: quello che, a partire dagli anni Cinquanta (Stiffelio e Luisa Miller) univa la conquistata dolcezza alle doti vigorose e robuste di un Duprez e di un Donzelli. O a quanto, ben più che per immediatezza di fraseggio e genorosità di temperamento, virtù riconosciute a Baucardé (primo interprete del Trovatore), il Manrico di Bergonzi rimandi a quello di Enrico Tamberlick per eloquenza d’accento e ampiezza di declamazione; caratteristiche anche della temeraria scrittura di Alvaro nella Forza del destino, proposta in calce a questo scritto nella versione 1862.
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