Il capolavoro verdiano torna a Parma nel collaudato allestimento di Stefano Poda. Sono nuove l’erudita concertazione di Jader Bignamini e una compagnia di canto con importanti debutti e conferme
di Francesco Lora
SU QUASI TUTTO LO SVOLGIMENTO DEL CORRENTE FESTIVAL VERDI (10 ottobre – 4 novembre) si estende l’ombra del più importante sforzo produttivo di quest’anno: La forza del destino, per cinque recite al Teatro Regio di Parma (10-28 ottobre). L’allestimento scenico non è una novità: è lo stesso con il quale era già stata inaugurata, nel 2011, la stagione lirica del teatro parmigiano. Si ritrovano tuttavia volentieri la regìa, le scene, i costumi, le luci e la coreografia tutti firmati da Stefano Poda, e caratterizzati (nel suo stile) dall’essenzialità del gesto, dall’astrazione degli spazi, dalla linearità dei tagli, dalla suggestione dei fasci e dalla nettezza dei movimenti. È una lettura quasi collocata fuori dall’epoca, dai luoghi e dalla cultura, se non fosse per i cappelli a cilindro che spuntano nell’atto II in testa al coro (trasposizione ottocentesca), per il mantello rosso di Preziosilla che viene a dare l’unico tocco caldo alla scala di grigi circostante, e infine per il simbolo della croce che pende al collo di Leonora e che è inscritta nelle grandi pareti rocciose mobili. Così asciugata e restituita, La forza del destino diviene un puro dramma ideale di anime. Rimane dunque una sola perplessità: se un simile trattamento si attagli in modo prioritario a un’opera così deliberatamente eclettica di umori (dal tragico al comico, dal brillante al grottesco), così connotata dal punto di vista storico (tra confronti culturali e campi di battaglia) e così ricca di concretissima azione accanto ai momenti di stasi lirica e meditativa (al punto che numerosi pezzi chiusi sono portati a rapida conclusione da sopraggiunti colpi di scena).
Le redini della narrazione sono in ogni caso condivisi con Jader Bignamini, giovane direttore rivelatosi da pochi anni come uno dei massimi talenti in circolazione, e venuto qui a riconfermare una consapevolezza tecnica fuori dal consueto, una singolare maestria nel dosare le situazioni espressive e nel dare vividezza a quelle descrittive, nonché un’appassionata attenzione al naturale svolgersi del canto e alle necessità pratiche del cantante. Il già ricordato eclettismo della partitura – che oltre a diversi umori colleziona ogni possibile forma e stile praticati nel teatro d’opera ottocentesco, e per giunta vi convoca e ostenta una notevole varietà di organici vocali e strumentali – pone a Bignamini richieste d’eccezione, e da lui riceve un adempimento di straordinaria prontezza ed erudizione. Il merito si estende in breve passo alla Filarmonica Arturo Toscanini, orchestra di sempre maggior risalto nel contesto italiano, e al Coro del Teatro Regio preparato da Salvo Sgrò.
La compagnia di canto, tra le più insigni oggi radunabili, è prodiga di sorprese. Almeno in tre devono, per virtù differenti, condividere la corona del trionfo. Il primo è Luca Salsi, il più interessante baritono verdiano emerso negli ultimi anni, forte di timbro vellutato, estensione facile e accento energico: la parte di Don Carlo di Vargas gli calza come un guanto, sia laddove sia simulato il grand seigneur sia laddove venga a galla il vilain. La seconda è Chiara Amarù, il giovane mezzosoprano del quale si sono già saggiate le attitudini rossiniane e donizettiane, ma che come Preziosilla conferisce nuova dignità alla parte: la maliziosa brillantezza del porgere contagia la scena e le girandole dei passaggi di agilità fanno scintille. Il terzo è Michele Pertusi, genius loci che soprattutto a Parma ama dare nuovi debutti in parti verdiane: il suo Padre guardiano è un capolavoro non di ieratica asserzione tesa a reggere e giudicare, ma di pacata umanità tesa a comprendere e perdonare, veicolata sul più nobile legato che un basso-baritono odierno possa vantare nella sua organizzazione tecnica.
Più ordinarie sono le prove dei protagonisti. Come Don Alvaro, il tenore Roberto Aronica patisce una certa discontinuità, scorrendo con solidità tecnica da un campo all’altro della tessitura, ma con frequenti segni di affaticamento e superficialità; notevoli sono cioè i passi dinamici, dove egli deve esprimersi in modo animato su canto sillabico e in registro mediano, mentre una romanza sublime come «O tu che in seno agli angeli» riceve da lui un fraseggio sbrigativo. Come Donna Leonora, a sua volta, il soprano Virginia Tola manifesta di ispirarsi al modello di Raina Kabaivanska per contegno espressivo e sorvegliatezza tecnica; le mancano però sia quel superiore grado di signorilità, sia il poter esibire – la scrittura della parte se ne avvantaggerebbe – una qualche dote peculiare in fatto di piglio, timbro e smalto. Magnifico senza condizioni è invece il Fra Melitone di Roberto De Candia, nella cui stilizzazione interpretativa si intravede la depressa malignità del religioso frustrato. Ottima tutta la rosa dei caratteristi e dei comprimari, con veri e propri lussi in Andrea Giovannini (un Mastro Trabuco la cui petulanza è prodiga di sottigliezze) e in Raffaella Lupinacci (una Curra scolpita quasi come un eroe rossiniano en travesti).