Al Volkstheater I sette peccati capitali, ballett chanté di Brecht-Weill
di Barbara Babic foto © Christoph Sebastian/Volkstheater Wien
NOVE CANZONI CON LA MUSICA DI KURT WEILL e testi di Bertolt Brecht, Roger Fernay, Maurice Magre e Ogden Nash fanno da prologo a Die sieben Todsünden (I sette peccati capitali), ballett chanté (1933) che segna l’ultima collaborazione Brecht-Weill maturata durante l’esilio parigino. Sul palco c’è l’attrice e cantante Maria Bill, indiscussa protagonista della serata, che appare quasi per magia nel suo lungo abito da sera nero e un boa di tulle bianco, a raccontare di vizi, possesso, ipocrisia, dignità e amore in tutte le sue declinazioni: quello disilluso di Je ne t’aime pas, quello mercificato di Nanna’s Lied, quello nostalgico di Speak low e I’m a stranger here myself (tratte dal fortunato musical One Touch of Venus), quello dell’Opera da tre soldi (Der Barbara-Song, Die Seeräuber-Jenny, Die Zuhälterballade, Die Ballade von der sexuellen Hörigkeit), accompagnata al pianoforte da Michael Hornek.
Una regìa in punta di piedi che procede per gesti minimi dalla chiara lettura, come nelle banconote che piovono copiose sulla scena (Avarizia)
Non è un caso che questo excursus tra le più celebri pagine di Weill si concluda con Youkali, (dall’opera Marie Galante), illusorio e onirico “luogo dei desideri, della gioia e del piacere”, che qui pare preannunciare la vicenda dei Sette peccati capitali, la storia delle due sorelle Anna mandate dalla famiglia in sei grandi città per guadagnare il denaro necessario per comprare una casa sul fiume Mississippi. La scena rimane quasi immutata e da dietro lo schermo su cui capeggiava il nome di Weill e dei suoi parolieri compaiono i quaranta orchestrali dell’Orchester der Vereinigten Bühnen Wien diretta da Milan Turković.
La regìa di Michael Schottenberg è interamente cucita – insieme alla costumista Erika Navas – addosso alla protagonista, che qui incarna entrambe le sorelle (come recita lei stessa: «Mia sorella è bella, io sono pragmatica. Lei è un po’ folle, io sono ragionevole. In realtà non siamo due persone, ma una sola»), diversamente da come era stata pensata l’opera-balletto in origine. Alla prima, il 7 giugno 1933 Théâtre des Champs-Elysées a Parigi, i due ruoli furono infatti affidati alla voce di Lotte Lenya e alla danzatrice Tilly Losch coreografata da George Balanchine, a rappresentare lo sdoppiamento dell’io e dissidio esistenziale dell’uomo nella società capitalistica.
Le luci si accendono all’improvviso dando il via ai sette quadri dell’opera: dal lungo abito nero da sera si passa velocemente a un vestitino a fiori, mentre il boa diventa un tutù in una danza del cigno piuttosto scomposta (Gola). Infine è solo una valigia a fare da vestito (Ira), in movenze goffe su dei trampoli (Invidia), per una femminilità che è prima innocenza poi provocazione in quel rossetto che per tutta l’opera rimane sbavato sul volto. Una balletto stilizzato e spesso grottesco, espresso anche nei movimenti robotici della famiglia dall’aspetto cadaverico (Ivaylo Guberov, Martin Mairinger, Johannes Schwendinger e Wilhelm Spuller), per una regìa in punta di piedi che procede per gesti minimi dalla chiara lettura, come nelle banconote che piovono copiose sulla scena (Avarizia). Energica l’orchestra, buona la performance delle voci maschili (con qualche sbavatura e squilibri di volumi dovuti all’amplificazione), trionfale quella dell’one-woman-show di Maria Bill: ardente, espressiva, dalla vocalità ora suadente ora tagliente, tragica e ironica nella sua narrazione di ideali piccolo-borghesi e relazioni precarie del mondo moderno, tese tra l’amore vero (wahre Liebe) e quello mercificato (Ware Liebe). Settantacinque minuti di grande intensità, con notevole plauso del pubblico viennese.