Lugo Opera Festival apre la stagione 2015 con la prima italiana della pièce noir firmata Astor Piazzolla, Jean Guidoni e Pierre Philippe
di Giampiero Cane foto Roberto Recchia
CRIME PASSIONNEL, un delitto passionale, andato in scena al Rossini di Lugo, entroterra ravennate, costituisce di per sé la metà dell’opera omnia di Astor Piazzolla per il teatro musicale, essendo l’altra metà in María de Buenos Aires, una pièce del 1968, dunque precedente a quelli che saranno i suoi tanghi di maggior successo.
Crime Passionnel è del 1981 e nacque a Parigi dalla collaborazione di Piazzolla con Jean Guidoni, all’epoca cantante di successo che s’avvaleva per i testi delle canzoni, tra altri anche di Pierre Philippe, vulcanica personalità impegnata nel cinema, nella televisione e scrittore che nel ’77 traduce dal tedesco e adatta alcuni testi di Rainer W. Fassbinder che interesseranno Guidoni e saranno occasione per la loro collaborazione.
«Il 10 settembre 1982 una specie di bomba esplose al Théâtre des Bouffes di Nord – racconta Philippe: la prima rappresentazione di Crime Passionnel, Opera per un uomo solo che un anno prima Astor Piazzolla e io stesso avevamo composto e scritto per Jean Guidoni e che quest’ultimo aveva registrato alla fine del 1981. Senza saperne bene il perché, allora, un immenso passaparola aveva portato una folla davanti alla porta del teatro che proseguì le repliche facendo l’esaurito. Effetto Piazzolla, di certo, nonostante la celebrità del musicista fosse ancora lontana dalle vette raggiunte in seguito, e per Jean Guidoni, senza dubbio la prima messe dagli sforzi impiegati da tre anni per un repertorio esigente […] mentre una corrente entusiasta si manifestava nella stampa, che faceva di lui l’araldo di una canzone libera da ogni vincolo commerciale».
La pièce ha la sua ragion d’essere nel pensiero che qualcosa sia morto, che non tornerà, e il tango di Piazzolla non contraddice
Scritto per pianoforte e voce, Crime Passionnel, è uno spettacolo per un interprete che sta da solo in scena. Dura un po’ più di un’ora e, nel succedersi di recitazione verbale e di canto, quasi si dichiara erede dell’opéra-comique. Questo testo non nasce però all’interno della tradizione del teatro d’opera, ma piuttosto del musical, del cabaret. Non si tratta comunque affatto di una pièce leggera, ma di un’espressione che nasce dall’angoscia, dall’oscurità della mente. È un frutto tardivo dell’esistenzialismo che era stato nella moda teatrale d’oltralpe un protagonista delle scene della generazione precedente.
La scena è spoglia. Due quinte avvicinate alla verticale media del palcoscenico sono un po’ arretrate dietro a un tavolo che è deformato da un qualcosa che non sappiamo cosa sia poiché un telo bianco copre tutto, giungendo fin quasi a terra. È più un altare che un tavolo, ma è un tavolo che ha un “ventre” enorme. Il personaggio in scena – non direi che abbia un nome – canta parole piene di dubbio – la loro traduzione in italiano scorre sulle due quinte, le quali dunque si rivelano pagine d’un libro aperto. Niente indirizza la nostra comprensione se non verso la vaga idea che qualcosa, qualcuno sia morto, sia finito: un’amante? il sentimento? – non lo sapremo mai: l’arcano non ci sarà svelato.
Abituati come siamo ormai a sentire il tango come una musica, e a vederlo come un ballo artato, meccanicamente spavaldo, machamente interdittivo di fragilità e dubbio quasi non ci avvediamo che Piazzolla sta contravvenendo a questa retorica. Non è compulsivo il suo tango, ma seducente, assomiglia per carattere più blues: trascina, non spinge. Il pianoforte continua a condurre il sentimento anche quando l’attore non canta, ma recita. L’attore si chiama Mario Cei: ha gesti semplici che si rifanno al noir, ma in quest’aria sospesa dove tutto fa supporre un delitto passionale, me nulla ci conferma che di ciò si tratti, quei gesti perdono quell’esclamativo che spesso li accompagna, che è quel che li fa stereotipi.
Si brancola nel buio seguendo un sentimento che sa farsi reale, sa dirsi, ma senza dirci la realtà drammaturgica su cui poggia. Assomiglia un po’ al Lenz di Holderlin, quello messo in musica di Rhim, non per la musica però, ma per il rifiuto di fornire al pubblico i dati di una trama che è priva di un passato conosciuto e che si stende su un presente che non ha azioni, ma solo pensieri deliranti. Alla fine i cadaveri “positivamente” presenti in scena sono fiori, quelli che davano al tavolo la forma d’un ventre falstaffiano. Tolti da sotto la tela i fiori, ci s’infila l’attore: il tavolo-altare riprende la sua empia deformazione e possiamo ipotizzare che il morto cui tanto alludeva lo spettacolo sia questa vittima d’un maschicidio suicida.
Naturalmente va benissimo e nessuno sente il bisogno di stabilire alcunché che possa essere dato come trama. Semplicemente, attorno alla fase descritta ciascuno può mettere il passato che preferisce e quel che avverrà, purché sia caratterizzato da una qualche forma pur non esasperata di delusione, rimpianto, pentimento e così via. Come ormai più volte detto, la pièce ha la sua ragion d’essere nel pensiero che qualcosa sia morto, che non tornerà, e il tango di Piazzolla non contraddice, anzi, ma l’ombra della disperazione è rifiutata dall’essenza di questa musica che funziona un po’ come i cori negli impianti tragici di Donizetti che cantano il dolore sollevando l’ascoltatore dal parteciparvi.
Con questa messa in scena, il piccolo Festival operistico di Lugo afferma la propria intenzione di non lasciarsi uccidere dal capitalismo che distribuisce i beni a pochi privilegiati distruggendo il bene pubblico. La città ha risposto con poco afflusso, ma la sensazione è che l’occasione sia stata organizzata un po’ frettolosamente. Chi c’era non ha lamentato uno spettacolo né modesto né sgradevole. Il delicato colore pianistico era affidato a Alessandro Sironi che, tutto al servizio dello spettacolo, quasi non s’è fatto notare.