Astratto ed intricato il nuovo spettacolo pensato dal regista russo Černjakov per il teatro bavarese. Bene il cast e la conduzione musicale
di Gianluigi Mattietti
È UNA LULU DIVERSA DAL SOLITO quella che si è vista alla Bayerische Staatsoper, nel nuovo allestimento firmato da Dmitrij Černjakov e diretto da Kirill Petrenko. Una regìa di forte personalità, che sfrondava la vicenda di ogni volgarità e anche delle tinte forti, grottesche, cruente che di solito caratterizzano gli allestimenti dell’opera di Berg. Come nei Dialogues des Carmélites, messi in scena a Monaco nel 2010, Černjakov ha creato una sorta di scatola scenica, un contenitore, una griglia di pannelli di vetro che delimitavano spazi astratti, creavano una specie di labirinto essenziale nella sua nudità, e infiniti riflessi e giochi di specchi, che moltiplicavano le tensioni drammatiche e gli stessi personaggi, che sembravano perdersi nelle loro proiezioni. Non c’era altro, se non qualche sedia bianca e un sapiente gioco di luci (di Gleb Filshtinsky), vivido, intermittente, che sottolineava gli snodi della vicenda.
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Durante gli Interludi e nelle due scene del terzo atto, questa architettura trasparente si popolava di mimi, di coppie eleganti, in abiti pastello, come una folla che sembrava spiare le azioni di Lulu e i suoi amori. Queste coppie, prima in maniera statica poi sempre più concitata, riproducevano gli abbracci, i baci, gli amplessi di Lulu, ingaggiando, alla fine, vere e proprie lotte, in un continuo contrappunto di gesti, di muta violenza. In questo labirinto di vetro e di rispecchiamenti, i mimi moltiplicavano il bacio tra Schön e Lulu, davano vita all’azione della Filmmusik del secondo atto, affollavano, come un immobile tableau vivant la scena della festa del compleanno, si spogliavano, restavano in biancheria intima, come dei manichini in vetrina, nell’ultima scena, ad osservare il mortale girotondo di clienti (alter-ego degli ex-mariti) che concludeva la parabola tragica di Lulu.
Tutto era dominato da un profilo femminile bianco, il ritratto di Lulu disegnato dal pittore, sul vetro, al centro della scena: una figura elegante, flessuosa, che si stagliava sullo sfondo geometrico, un corpo vuoto, a metà tra il sogno erotico e la sagoma che si disegna col gesso sul luogo di un omicidio (non a caso gli omicidi e i suicidi dell’opera avvenivano sempre a ridosso di quella figura bianca). Eros e Thanatos ricondotti alla forma primigenia di una pittura rupestre. Nella sua regìa sobria, lapidaria, Černjakov seguiva con esattezza il testo, senza aggiungere elementi ridondanti, prestando grandissima attenzione ai dialoghi, e alle singole parole. Nella sua Lulu non c’era traccia del mondo del circo, né del decadentismo fin de siècle, né del demi-monde della ricca borghesia viziosa e corrotta. Il regista non cercava nemmeno trasposizioni in altri luoghi o altre epoche (come aveva fatto David Alden, proprio a Monaco, nella sua Lulu in chiave grottesca, piena di richiami all’America anni Cinquanta, alla Pop art, al mondo dei media); e più che al tema dell’eterno femminino descritto da Wedekind, sembrava interessato alla psicologia della guerra dei sessi, a una narrazione oggettiva, cruda, di grande concentrazione espressiva. Lulu non era l’essere primitivo contro cui impazza la civiltà progredita (Adorno), né la femme fatale, incarnazione della forza distruttrice dell’Eros in una società che lo reprime, né la Lolita viziata e insensibile, né la “gattina” affascinata dal potere. Nelle sue mise sempre diverse, ma sempre di un bianco accecante, sembrava essere ancora uno schermo riflettente, lo spazio delle proiezioni mentali degli uomini e delle donne che la circondavano, la donna con nomi diversi che diventava ciò che gli altri volevano vedere in lei, come la sagoma vuota del suo dipinto.
In questa difficile caratterizzazione è stata semplicemente superba Marlis Petersen, che ha maturato il personaggio di Lulu in una lunga carriera, e in numerosi, diversi allestimenti (a Kassel nel 1999, a Vienna nel 2002, ad Amburgo nel 2003, a Chicago nel 2008, al Metropolitan nel 2010, dove ritornerà con una nuova produzione il prossimo novembre). Il perfetto controllo della voce, le doti da liederista, la duttilità espressiva, l’agilità del soprano di coloratura, ma con peso drammatico, il fraseggio morbido, gli acuti nitidi, mai urlati, permettevano al soprano tedesco di offrire un ritratto assai sfaccettato di Lulu. Il suo canto e la sua recitazione erano seduttive nel senso più genuino del termine, per la femminilità naturalissima, senza trucchi, senza sforzo, senza stereotipi, capace anche di trovare inflessioni commosse. Partner perfetto era Bo Skovhus, uno Schön autorevole, di grande fisicità, ma anche pieno di sfumature e di umanità, benché la sua voce mancasse di risonanze gravi. La contessa Geschwitz era Daniela Sindram, mezzosoprano wagneriano di tempra drammatica, con un’emissione nitidissima e un grande legato. Sempre lirico invece il canto di Matthias Klink, un Alwa suadente, sensuale, dal bel timbro brunito, capace di salire senza sforzo negli acuti. Ottimi anche Rainer Trost (il pittore), dalla vocalità esuberante, energica e giovanile; Martin Winkler, un atleta poco credibile scenicamente, ma basso poderoso e ben timbrato; il solido Christian Rieger nei panni del primario, del banchiere e del professore; Wolfgang Ablinger-Sperrhacke che incarnava alla perfezione il mellifluo marchese. L’unico un po’ sotto tono è parso lo Schigloch di Pavlo Hunka. La direzione di Kirill Petrenko, che ha preso il posto di Kent Nagano nella fossa della Staatsoper, era levigata, sottile, dettagliatissima, molto espressiva, a tratti ovatta, quasi weberninana. Abilissimo cesellatore, coglieva le mezze tinte, i più delicati impasti timbrici, gli effetti trascoloranti, le piccole cellule melodiche. Evitava ogni eccesso, dando il giusto sfogo ai temi lirici, ma imprimendo piuttosto un carattere “parlante” ad ogni frase musicale, cogliendo il raffinato gioco di intarsi di forme e stili musicali, sottolineando gli sviluppi sinfonici negli Interludi, creando un vero e proprio effetto di vortice nell’arco del terzo atto.
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