
Al Teatro Litta la Société d’Opéra Coin du Roi torna con la prima prova teatrale di Mozart
di Bianca De Mario
Intendiamoci: la riapertura del Litta a (mini)stagioni di teatro musicale non può che essere un bene per una Milano sempre più assetata di Settecento – perlopiù di quello inesplorato dalle scene ufficiali – e di spazi lirici che si offrano come una valida e, se vogliamo, più intima alternativa alla magniloquenza scaligera. Ben venga anche la creazione di realtà private che vogliano cimentarsi nell’ardua impresa di coniugare tanti elementi eterogenei (troppi forse?): la ripresa filologicamente informata di un repertorio di grandissima difficoltà esecutiva, l’utilizzo di cast giovani e dinamici, una veste registica in equilibrio tra passato e presente e persino l’uso di teatri sociali o di corte che hanno dismesso un cartellone operistico. Un’iniziativa ambiziosa e ammirevole, insomma, quella della Société d’Opéra Coin du Roi, ma che non cela una certa pretenziosità.
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Dopo la rappresentazione primaverile del Serse di Händel, la scelta è caduta su Apollo e Hyacinthus, prima prova teatrale di un Mozart soltanto undicenne. Si tratta di un delizioso «intermedio in un prologo e due cori», come recita il libretto di Padre Rufinus Widl, che fu inserito nella sua tragedia Clementia Creusi, composta per il teatro della Benedektiner-Universität di Salisburgo nel 1767. Il celebre mito si addice squisitamente a quest’operina senza troppe pretese ma certo piacevole: colpito dal disco di Apollo, gelosamente deviato dal bugiardo Zefiro, Giacinto perderà la vita ma verrà mutato in fiore dal dio. Per adattarlo al ‘buoncostume’ della didattica settecentesca, Widl eliminò tuttavia la componente omoerotica, introducendo il personaggio di Melia, oggetto dell’amore di Apollo e Zefiro, nonché sorella di Giacinto.
Certo non si può dire che l’allestimento dei Coin du Roi non abbia riservato sorprese, nel bene e nel male. Alla terza replica (domenica 18 ottobre), l’orchestra si lascia apprezzare non solo per la precisione e pulizia del suono, ma anche per la ricerca di un colore omogeneo e brillante. Il lavoro del direttore Christian Frattima, che inserisce nella rappresentazione le due sinfonie k 16 e k 19, non si limita a questo: il programma di sala contiene un interessante saggio sulla fonetica latina che giustifica la scelta di adottare in questa sede la pronuncia germanica. Peccato tuttavia che questo problema fosse tutto sommato secondario per i cantanti, in alcuni casi piuttosto acerbi. E la regìa di Alessio Pizzech, che riprende il tema dell’omosessualità – esasperandolo – non facilita certo il loro compito.
Già ascoltata nel Serse, il mezzosoprano lituano Vilija Mikštaitė, si trova forse più a suo agio nei panni di Hyacinthus, almeno dal punto di vista vocale; non male l’Apollo del controtenore Alessandro Giangrande, sebbene penalizzato (come del resto gli altri) da abiti in stile «fashion-sportwear» che a tutto fanno pensare fuorché alla mitologia greca. Scene, costumi, parrucche, tutto in bianco (ivi compresa la bara di Giacinto che – ennesima caduta di stile – si trasforma in aiuola): è un’idea tanto cara a parecchie regìe contemporanee di opere settecentesche, ma non fa altro che spersonalizzare e allontanare portando ‘fuori tempo’, in uno spazio remoto, questo genere, già difficile da proporre oggi. Sarà forse anche questo (ma non solo) a rendere poco convincenti lo Zephyrus di Valeria Girardello e l’Oebalus di Graziano Schiavone. Ottima invece la performance di Elina Shimkus, nel ruolo di Malia, nonostante la regìa la condanni a stare per oltre metà dello spettacolo in biancheria intima – ma bisogna ammetterlo, la sua voce e il suo bel corpo sono quanto di più vero ci possa essere in questo allestimento. Alle ostriche e allo champagne del Rinfresco Settecentesco possiamo anche rinunciare. A un Mozart pressoché sconosciuto e a un’immagine del Settecento che incuriosisca, scuota e diletti, con le sue pregevoli sfumature, di certo no.
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