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Opera nel regno del silente e dell’incorporeo. Inaugurata a Torino la stagione 2015-16 dell’OSNRai, in Auditorium ‘Toscanini’, con il suo Direttore principale Juraj Valčuha
di Attilio Piovano foto © Studio PiùLuce
Un pool di specialisti in musica francese proto-novecentesca o, se si preferisce, uno strepitoso cast vocale per un capolavoro assoluto, il Pelléas et Mélisande di Debussy col quale si è inaugurata a Torino la stagione dell’OSNRai, in Auditorium ‘Toscanini’ la sera di giovedì 15 ottobre 2015. Un’opera simbolista, il Pelléas, partitura di inarrivabile bellezza, eleganza e raffinatezza che, a conti fatti, ci guadagna enormemente in un’esecuzione in forma di concerto (con sopratitoli e giochi di luce molto soft a sottolineare i cambi di scena, ovvero l’alternanza giorno-notte, e inoltre la semplice entrata e uscita dei solisti). Un’opera fondata sull’immanente presenza dell’acqua, declinata in tutte le sue possibili valenze, e allora l’acqua del mare e l’acqua della fontana dei ciechi con le iridescenze delle arpe, ma anche l’acqua stagnante nei sotterranei del castello, segnacolo di morte, e l’acqua come elemento ancestrale, come liquido amniotico.
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Un’opera in cui il ‘silente’ dialogo tra i personaggi, spesso attanagliati da una vera e propria incomunicabilità, nonché il fascino arcano dell’inespresso e dell’inconoscibile, giocano un ruolo di assoluta priorità, grazie al libretto del belga Maeterlinck fitto di preziosità lessicali. Mélisande creatura misteriosa che non si sa donde provenga e dal destino sfumato; darà alla luce una bimba, uscendo di scena in punta di piedi, così come era apparsa sull’orlo di una fonte, al limitare del bosco.
Sicché la sua morte appare lontana mille miglia dal pathos che circonda le eroine romantiche, per non parlare dell’universo verista. E anche la gelosia in cui si dibatte, acciecato senza via d’uscita la figura di Golaud, il suo complesso rapporto col fratellastro Pelléas, il suo stesso divenire assassino, sembrano come sospesi nel regno dell’incorporeo. Su un plot che pare uscito dall’universo degli adorati quadri pre-raffaelliti Debussy seppe intessere una partitura di sovrumana bellezza: per lo più giocata sulle mezze tinte e sulle dinamiche delicate, benché non manchino apici e momenti di forte tensione drammatica, specie nel quarto e quinto atto, delineando un forte iato, o se si preferisce un vero e proprio gap rispetto alla più evanescente prima parte.
Juraj Valčuha, dal podio, l’ha dipanata con mano sicura, evidenziandone le mille seduzioni timbriche, con tempi allentati, ma anche alcune incalzanti ‘strette’ a rendere palpabile il precipitare inesorabile del destino, la caduta dei protagonisti in un abisso senza ritorno, privo di riscatto o prova d’appello. Superba la prova fornita dall’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai, capace di delicatissime rarefazioni e, per contro, clangori immani di forte impatto emotivo.
Coinvolgente fin dai primi istanti l’interpretazione del soprano Sandrine Piau (dal perfetto physique du rôle) che ha saputo sbozzare una Mélisande delicata e attonita, incapace di far del male a chicchessia e pur in grado di provare l’estasi dell’innamoramento. Tecnica solidissima e molta espressività. Così pure assai ammirato il Golaud del baritono Paul Gay (anch’egli perfettamente nella parte quanto a figura scenica, pur nel frac d’ordinanza) vocalmente impeccabile e incisivo sì da trasmettere al pubblico la febbrile perfidia del personaggio, ma anche la sua profonda solitudine e le sue mille, contraddittorie sfumature psicologiche cui in orchestra fanno da contraltare sonorità cupe, talora agghiaccianti. Bravissimo e a lungo applaudito il baritono Guillaume Andrieux, un Pelléas in grado di trascorrere con naturalezza e vibranti accenti dalla mestizia e dalle inquietudini giovanili alla gioia euforizzante dell’amore adolescenziale. Non da meno il basso Robert Lloyd, l’anziano re Arkël, autorevole, pacato e tenerissimo nei confronti della piccola, indifesa Mélisande, circonfusa dalle liquidità di una strumentazione perlacea e trasparente. Un plauso speciale al piccolo Yniold ben reso (fin dalla gestualità infantile e sagace) dalla bravissima Chloé Briot dal fisico minuto che, certo, aumentava enormemente la suggestione. Un poco sotto traccia la Geneviève del contralto Karan Armstrong, parsa opaca, ma ha una parte di scarso rilievo. Bene Mauro Borgioni per la ‘comparsata’ del pastore (seguito da uno spot luminoso) e poi nel ruolo ‘in scena’ del dottore.
Da menzionare l’apporto del Coro Maghini (molto opportunamente collocato in alto, in balconata, per il suo pur limitato intervento, con fascinoso effetto ‘fuori scena’). Bellissimi gli interludi sinfonici di questo capolavoro assoluto, raramente ascoltato con sì grande emozione. Pubblico (colpevolmente) un po’ scarso: chi ha disertato questa ‘prima’ di certo s’è perso una esecuzione epocale mentre chi era presente, per contro, ha applaudito a lungo con convinzione piena, decretando il successo vivissimo della serata della quale conserveremo a lungo memoria.
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