di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
A BREVE DISTANZA L’UNO DALL’ALTRO dirigono alla Scala i due protagonisti più accreditati del panorama musicale italiano nell’era post-mutiana, Daniele Gatti e Riccardo Chailly, scegliendo il primo un programma bipartito che offre la possibilità di ascoltare due lavori di stampo contrapposto. Gatti ha aperto infatti la serata con una Sinfonia di Mozart, la K 338, che è molto interessante per diversi motivi, non ultimo dei quali la sua scarsa frequentazione nei programmi concertistici. Compatta, lineare ma non priva di quei particolari che concorrono a differenziare l’opera del genio da quella del musicista professionista, la Sinfonia si apre in un “do maggiore” assertivo che anticipa in maniera impressionante l’incipit dell’Ouverture de La clemenza di Tito. E qui, dopo poche battute, si ammira la concertazione affascinante di un direttore che si rivelava tanti anni fa a un pubblico plaudente attraverso le note di un Mozart più giovane – quello dei Divertimenti che Gatti era solito proporre con l’Orchestra Stradivari – con la stessa freschezza di allora ma in più con la consapevolezza di chi ha intanto esplorato in lungo e in largo un repertorio vastissimo e ritorna a Mozart mettendo in risalto la trasparenza di un tessuto orchestrale leggerissimo, il respiro di ogni frase, il velo di tristezza che qua e là turba l’andamento sereno e tranquillo e il ritmo marziale di una musica apparentemente priva di contrasti.
Non poteva esistere alternativa più vistosa, nel programma della serata, di quella rappresentata dall’accostamento di una delle più complesse sinfonie di Šostakovič, la Decima, dove più insistentemente si affacciano all’ascolto i motivi cardine di una poetica sofferta e di una umanità spesso repressa dalle convenzioni di appartenenza a un regime politico-culturale estremamente rigido. Quali che siano i motivi che stanno alla base del messaggio racchiuso nella Sinfonia, dove incombe la ripetizione della sigla D.S.C.H., ovvero la traslitterazione musicale del nome del compositore, lo spettatore si trova immerso in una musica fatta di contrasti estremi, dove il carattere quasi funebre della lunga introduzione tende a gettarci in uno stato di disperazione senza scampo alcuno. Depressione, visione sconsolata della vita, fondamentale pessimismo di matrice mahleriana vengono solo parzialmente riscattati dal virtuosismo strumentale di archi e fiati impegnati in velocissime figurazioni di note congiunte, scandite da ritmi impari o sostenute da un rullo di timpani apparentemente festoso.
La Filarmonica ha esibito l’altra sera due facce completamente opposte assecondando le scelte di programma e le richieste del direttore, anch’egli “sdoppiato” di fronte a due elementi così dissimili tra di loro. Il Gatti mozartiano è piaciuto oltre ogni previsione, quello impegnato in Šostakovič si è ammirato per la lucidità della lettura e il coinvolgimento sincero nel dipanare un messaggio che in precedenza – ricordiamo una sua Quinta diretta negli anni giovanili – era stato affrontato da Gatti solo attraverso l’analisi del lato più esteriore della poetica del musicista sovietico.