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La formazione in scena al Lingotto di Torino con un repertorio molto variegato. Suonano come un’orchestra intera. Il pubblico li osanna
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
E POI SI DICE ARRANGIAMENTO O TRASCRIZIONE: in genere subito i puristi storcono il naso pensando ad una sorta di diminutio. Il concerto dei 12 violoncellisti dei mitici Berliner Philharmoniker, a Torino, secondo appuntamento per la stagione di Lingotto Musica, la sera di sabato 31 ottobre è stata la clamorosa smentita di questo trito luogo comune. Un concerto dal programma oltremodo variegato e, a dire il vero, quanto mai intrigante. E si è trattata di una collaborazione con le manifestazioni di ‘Torino incontra Berlino’. Un programma che, spaziando da Bach a Piazzolla (e oltre), ha permesso di porre in luce al meglio le proteiformi potenzialità timbriche, soprattutto, ma non solo, dell’ensemble di violoncelli, dalla pasta brunita e dal colore caldo.
Applausi scroscianti già a metà serata, ma dopo l’intervallo ecco che i dodici hanno idealmente voltato pagina e cambiato mood, per affrontare Piazzolla
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Apertura nel segno di Bach del quale gli impeccabili interpreti hanno proposto il solo Allegro dal Sesto Brandeburghese, nato – come si sa – per un organico di soli archi gravi. Scioltezza di fraseggi, grande bellezza di suono e molta omogeneità hanno contraddistinto la performance dei dodici cellisti che subito conquistano la sala del Lingotto al completo. Poi un salto cronologico ragguardevole ed ecco le struggenti note della celeberrima Pavane op. 50 di Fauré, dalle delicatissime estenuazioni sonore. Subito dopo ancora di Fauré i dodici cellisti hanno distillato le sofisticate armonie della Berceuse op. 56 che inaugura la deliziosa Suite pianistica Dolly, pagina dall’allure gradevolmente salottiera che sprigiona sempre un senso di profonda e amabile delizia. Quindi l’eleganza un poco frale, striata di spleen, della Sicilienne op. 80 tratta dalle musiche di scena per il Pelléas et Mélisande, ancora di Fauré. E ancora un arrangiamento di lusso dovuto a David Riniker (uno dei dodici), laddove gli arrangiamenti di Bach e della Pavane erano di Valter Despalj e Ludwig Quandt, nonché di Wilhelm Kaiser-Lindemann. Una vera lezione di stile, questa incursione in ambito francese tardo-ottocentesco, raffinata e salutare.
Poi i ben più animati ritmi della prima delle Bachianas Brasileiras del sudamericano Villa-Lobos dinanzi al quale i dodici mostrano di trovarsi perfettamente a loro agio: tecnica solidissima, affiatamento assoluto e un senso del ritmo impagabile. Verve iniziale (Embolada), poi le brume del Preludio (Modinha) impregnato di sensualità languorosa, infine la Fuga innervata di argute sincopi in bilico tra folklore sudamericano e reminiscenze del Kantor: pagina di grande fascino con la quale il gigione e un po’ anarchico Villa-Lobos fa rivivere sapientemente (e con un pizzico di humour) la più arcaica tra le forme contrappuntistiche.
Applausi scroscianti già a metà serata, ma dopo l’intervallo ecco che i dodici hanno idealmente voltato pagina e cambiato mood, per affrontare Piazzolla. E allora, quanta souplesse e quanta varietà ritmica nel graffiante Lunfardo, poi le note del notissimo e sempre gradito Libertango dalla inconfondibile linea melodica, quindi i ritmi smaccatamente sudamericani di Revirado. Una gioia per le orecchie e per gli occhi a seguire la perfetta sintonia dei dodici e il loro dinoccolato senso del ritmo. E poi via con La Diquera, pagina smagata dai vistosi echi folklorici dovuta a José Carli, la divertente Mas que nada di Jorge Ben Jor, pagine che contaminano con intelligenza e arguzia l’universo della cosiddetta musica di consumo, folklore e versante ‘colto’, ma sempre con quella leggerezza che è imprescindibile in ambito sudamericano.
E i dodici le hanno offerte con gusto e molto garbo, strappando vivaci consensi, giovandosi di calibrati giochi dinamici. Non basta: si è ascoltato ancora La flor de la canela di Chabuca Granda, un valzer peruviano impregnato di languore e struggente nostalgia, un gradevole Tango di Horacio Salgán e gran finale ancora nel segno di Piazzolla: con Escualo, dalla pulsazione ritmica incalzante come mimesi del cuore che, impazzito, batte in maniera forsennata e selvaggia e Tres minutos con la realidad dove Piazzolla mostra di saper concepire armonie sofisticate e davvero audaci al limite dell’atonale, con effetti quasi di cluster. Pubblico in visibilio e molto stupore da parte di chi immaginava che un complesso di soli violoncelli possedesse il limite invalicabile di una certa – come dire – monocromia timbrica. Tutt’altro.
Due graditi bis, un hommage all’Italia con una pagina di Morricone dai remoti glissandi; tocca il culmine all’apice della curva espressiva in un passo dalla incredibile densità sinfonica e dalla cantabilità espansa, poi si ripiega su se stessa riguadagnando l’atmosfera dell’inizio e ancora remoti, incorporei glissandi e sospirose frasi prossime al silenzio. Infine una concessione alla moda d’antan e allora il celebre tema (anni ’40) di Moonlight Serenade che fu un evergreen della formazione di Glenn Miller. Indimenticabile.
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