Situazione complessa alla Fondazione veronese, ricostruita in questo approfondimento dal 2014 ad oggi. In arrivo da Firenze la manager Francesca Tartarotti per l’adesione alla Legge Bray. Assemblea permanente dei dipendenti
di Cesare Galla
L’estate 2014 era stata molto piovosa e anche di quello il botteghino aveva risentito. Le recite operistiche annullate nell’anfiteatro romano (in un calendario molto folto) erano state peraltro pochissime, ma dopo i dati discreti della stagione del centenario, quella del 2013, il tonfo nelle presenze (poco sopra i 400 mila spettatori) e negli incassi (un paio di milioni in meno) aveva riacceso le preoccupazioni, rinfocolate anche dalla contrazione della quota di finanziamento statale. L’anno scorso a quest’epoca, tuttavia, della Fondazione Arena di Verona si parlava per l’imminente cambio della guardia alla sovrintendenza. Dopo due mandati quadriennali, infatti, Francesco Girondini aveva chiarito già da tempo la sua indisponibilità a rimanere al timone. E del resto, al di là dei dati tutt’altro che tranquillizzanti sul debito, ormai avviato verso i trenta milioni, e al di là della crisi di pubblico e di progettualità artistica, il presidente della Fondazione, il sindaco Flavio Tosi, ostentava sicurezza: il bilancio era al sicuro, non c’era motivo di chiedere l’apertura dell’ombrello della Legge Bray (qui la Seconda relazione semestrale del 2015 sul monitoraggio dei piani di risanamento), di ottenere facilitazioni per un risanamento condizionato peraltro da molti e pesanti sacrifici. Di fatto, l’Arena si era auto-iscritta al ristretto club delle Fondazioni liriche virtuose. Ne sarebbe uscita di lì a una decina di mesi, al termine dell’anno più drammatico della sua storia, che ne ha fatto un caso tristemente esemplare del dissesto della lirica in Italia.
A metà febbraio, le procedure per la nomina del nuovo sovrintendente erano ormai concluse e partivano le audizioni della cinquina di candidati rimasti (se ne erano presentati 36). In pole position, secondo tutte le fonti d’informazione, un commercialista veronese, ex manager di Gardaland. Quindici giorni più tardi, l’inatteso e per molti aspetti sorprendente ritorno allo status quo: Tosi non era intenzionato a rinunciare al suo fedelissimo, a maggioranza il consiglio d’indirizzo confermava come sovrintendente Francesco Girondini.
Seguiva una fase di calma solo apparente. All’inizio dell’estate, esplodeva la bomba-Filarmonico: il Comune comunicava all’Accademia, proprietaria del settecentesco teatro, la disdetta del contratto di affitto – poco sotto i 500 mila euro l’anno. Si tratta della sala dove si svolge la maggior parte della stagione invernale veronese – operistica e sinfonica. L’ipotesi era quella di “riparare” nel più piccolo Ristori, di recente ristrutturato dalla proprietaria Fondazione Cariverona, disposta a metterlo a disposizione gratuitamente. La stessa Fondazione bancaria, peraltro, riscuoteva (e riscuote ancora) l’affitto annuo da mezzo milione per il palazzo Forti, dove è stato aperto un Museo della Lirica mai decollato (costo annuo 1,1 milioni, ricavi 100 mila euro), mentre il suo presidente (ora uscente dopo un mandato ventennale) era ed è locatore di alcuni capannoni che fungono da magazzino scene per la Fondazione.
Nel silenzio di Girondini, il sindaco-presidente Tosi diventava protagonista assoluto della torrida estate 2015, alla fine della quale il consuntivo del festival avrebbe visto un aumento della presenza di pubblico quasi impercettibile. Sulla scorta del piano industriale commissionato all’agenzia milanese KPMG Advisory, del quale peraltro nessuno riusciva a prendere visione prima dell’autunno, ma con molte posizioni “autonome”, Tosi cominciava una battaglia mediatica molto aspra, partendo lancia in resta su temi sensibili come il costo del personale. Troppo alti, secondo il sindaco, anche in relazione al costo dei dipendenti comunali veronesi. Eppure, gli stessi dati raccolti da KPMG mostravano un dato superiore alla media nazionale di un paio di milioni (25,3 contro 23, 2) e soprattutto un’incidenza sui ricavi percentualmente fra le più basse in Italia (50,9% contro una media del 64,9%). E quanto al costo unitario, i 59.400 euro all’anno indicati nel piano collocavano Fondazione Arena al quinto posto (dopo Scala, Opera di Roma, Santa Cecilia e Carlo Felice di Genova), meno di 3 mila euro sopra la media nazionale.
In effetti, il piano industriale prevedeva un ritocco del costo del lavoro di circa 1 milione all’anno, da raggiungere riducendo gli straordinari e il ricorso al lavoro stagionale estivo, ma Tosi aveva altre idee. Senza mai menzionare il fatto che il piano prevedeva anche un risparmio di 1,1 milioni dalla revisione degli accordi con il Comune di Verona per la gestione di Palazzo Forti e dei magazzini, senza citare il particolare che non c’era previsione di uscita dal teatro Filarmonico, ma solo rinegoziazione del contratto con l’Accademia per arrivare a un risparmio sulla manutenzione, il sindaco di Verona decideva di andare al muro contro muro con i dipendenti. L’inizio formale delle ostilità arrivava verso la metà di novembre, quando il redivivo Girondini comunicava alla rappresentanze sindacali la disdetta unilaterale, dall’1 gennaio 2016, del patto integrativo aziendale, che vale il 30 per cento degli stipendi e il cui costo è di circa 6 milioni all’anno, sui 26 milioni complessivi. In quel momento era già noto che il debito della Fondazione (secondo i dati mai smentiti, del resto desunti dai bilanci, del quotidiano Il Sole – 24 Ore) era ormai di 34,8 milioni.
Da quel momento, la crisi si è avvitata drammaticamente. È scattata la protesta dei dipendenti, che hanno iniziato nella sede della Fondazione un’assemblea permanente tuttora in corso (e siamo oltre i due mesi). Gli scioperi sono arrivati a dicembre. Prima tre serate di un spettacolo di danza, per protesta contro l’esternalizzazione del corpo di ballo (quella sì prevista anche dal piano industriale: coinvolge 9 danzatori), poi una replica, l’ultima, della Forza del destino. È l’opera che a Santa Lucia ha inaugurato la stagione al Filarmonico.
Si avvicinano le feste, siamo ormai alla cronaca recente, e le sorti della Fondazione Arena si sovrappongono alle vicende della Legge di Stabilità 2016. La decisione di prorogare di due anni il termine ultimo per il risanamento previsto dalla Legge Bray (dal 2016 al 2018) permette anche di riaprire i termini e di allargare le condizioni per l’adesione. Il fondo di rotazione necessario per rinegoziare i debiti viene però aumentato soltanto di 10 milioni. Briciole rispetto alle esigenze della Fondazione e tenendo conto che altri teatri d’opera intendono ora aderire alla Bray.
Nel chiedere, il 30 dicembre, di aderire alla legge per il risanamento, Tosi e Girondini non sembrano preoccupati dal fatto che la norma non dà solo la possibilità di tagliare il personale tecnico e amministrativo (peraltro con un corredo di adeguati ammortizzatori sociali) e di rinegoziare l’integrativo, ma impone un severo piano di risanamento economico a prescindere: conti in ordine entro il 31 dicembre 2018, pena la liquidazione coatta. Vietato da subito, fra l’altro, il pagamento alle banche di interessi anatocistici (ovvero, di interessi sugli interessi precedenti, portati a capitale).
Indiscrezioni mai smentite rivelano che la Fondazione sta comunque corrispondendo il 7% sui prestiti bancari, ma Tosi continua a mostrare i muscoli ai dipendenti e a Capodanno minaccia – in caso di ulteriori scioperi – la sostituzione anche integrale dell’orchestra. È con questo clima – e nell’apparente ignoranza del fatto che su integrativo ed eventuali tagli del personale la Legge Bray pretende il preventivo accordo con i lavoratori – che la grande crisi doppia il capo del primo anno. Mentre la programmazione della prossima estate segna il passo (non un solo nome di cantante o direttore è stato ancora comunicato) e già i rappresentanti sindacali additano il pericolo che l’intera stagione possa saltare per i problemi tecnici-organizzativi determinati dall’azzeramento dell’integrativo, il secondo anno inizia con l’arrivo da Firenze di Francesca Tartarotti, la manager che ha gestito la trattativa con i dipendenti del Maggio per l’adesione alla Legge Bray (una trattativa che ha portato a una cinquantina di esuberi, assorbiti dall’agenzia governativa Ales – nessuno ha perso il lavoro). Attesa con la non invidiabile fama di “tagliatrice di teste”, Tartarotti dovrà agire nella terra bruciata delle relazioni sindacali pervicacemente voluta da Flavio Tosi. Se non altro, però, ha esperienza specifica: quella che finora alla Fondazione Arena è stata latitante. Ormai il tempo stringe. Ci sono solo pochi mesi per preparare il piano con cui chiedere di aderire alla Bray, ancora meno per trovare un accordo sindacale partendo da zero.
Il tempo è già scaduto invece, per quanto riguarda il ‘core business’, l’opera. È chiaro che la ridotta stagione estiva 2016 (46 serate invece di 54) bordeggerà più degli ultimi anni fra le gramaglie dei conti e la povertà delle idee. Il rilancio, se può esserci, passa anche e soprattutto per un radicale cambio della guardia. Girondini e l’intero consiglio d’indirizzo nei convulsi giorni di fine anno si sono detti disponibili a fare un passo indietro: è l’unico elemento di saggezza da un anno a questa parte, ammesso che non resti lettera morta.
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