Allestimento coprodotto dalla Metropolitan Opera House di New York con il Teatr Wielki Opera Narodowa di Varsavia | Gli ottant’anni di Zubin Mehta
di Elena Abbado foto © Krzysztof Bieliński
Si è inaugurato lo scorso 25 aprile il 79° Maggio Musicale Fiorentino che vedrà impegnata l’Orchestra del festival al nuovo Teatro dell’Opera fino al 31 maggio prossimo. L’inizio delle manifestazioni è stato preceduto dai festeggiamenti per gli ottant’anni da Zubin Mehta, un traguardo che segna per il direttore anche un momento particolarmente importante in merito alla sua collaborazione con l’istituzione fiorentina, dopo trent’anni di sodalizio. Dal prossimo anno, infatti, sarà affiancato alla direzione da Fabio Luisi, nominato suo successore.
Con Iolanda, op. 69 – ultima opera per il teatro di Pëtr Ill’ič Čajkovskij – il festival ha deciso di inaugurare la serie delle tre opere ospitate, scegliendo un titolo mai finora eseguito in Italia. I lavori musicali, anche se amati e curati allo stesso modo come figli, prendono a volte strade diverse da quelle immaginate, quasi opposte, soprattutto quando l’autore non può più vegliare sul loro destino. E così è stato per Lo Schiaccianoci e Iolanta, due atti unici concepiti dal compositore per essere rappresentati insieme, ma dalla fortuna assai diversa. Durante la scrittura di Iolanta, su libretto del fratello Modest, dal giugno al novembre 1891, egli desiderava ardentemente dimostrare di avere ancora altro da dire evitando di ripetersi. Va ricordato che in quei mesi scoppiò anche lo scandalo dell’accusa di omosessualità che sconvolse irrimediabilmente i suoi ultimi anni di vita.
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Nonostante il successo della prima nel 1892, Čajkovskij non ne fu soddisfatto, temendo in qualche modo di essere venuto meno al suo intento. Si tratta della paura di non rinnovarsi comune a molti grandi compositori di varie epoche, ma che pare essersi attenuata in quella presente che, in nome della parola “renaissance” (soprattutto nel caso di autori completamente dimenticati), si è costruita fama di essere la più propensa e magnanima alla ripresa di opere storiche minori, nella spasmodica ricerca del mistero artistico che ci sfuggirebbe frequentando solo i capolavori del repertorio. Eccoci quindi nel 2016 a ringraziare un sistema teatrale che, in virtù dei nuovi parametri di finanziamento agli enti lirici, ci fa sentire per la prima volta in Italia Iolanta, con buon compromesso tra esigenze economiche e qualità dell’offerta. L’assenza di questo titolo dalle scene finora si deve sicuramente al fatto del suo essere opera minore in molti sensi. Ma non in tutti. Essa si è infatti rivelata degna della recente attenzione ed in virtù della sua rarità, raffinata ed intelligente proposta da parte dell’istituzione fiorentina.
La scelta dell’allestimento è caduta su una coproduzione del 2009 del Metropolitan Opera House di New York con il Teatr Wielki Opera Narodowa (Teatro Nazionale Polacco), binomio che proprio in anni recenti ha contribuito alla ripresa internazionale dell’opera; passando anche per Baden-Baden e San Pietroburgo. Una produzione collaudata quindi, con la regia del polacco Marius Trelinski, regista sia cinematografico sia operistico; le scene e i video rispettivamente di Boris Kudlicka e Bartek Macias; il cui cast è la fusione di quelli delle precedenti produzioni.
Una serie di regole limitano e rafforzano la vita della principessa Iolanta, cieca dalla nascita, ma ignara della sua condizione. Per ordine del padre, re René, tutto intorno a lei è predisposto in sua funzione e prestabilito per non turbare il suo stato d’inconsapevolezza. Persino la conoscenza dell’esistenza teorica dei colori e della luce le viene negata. Tutto ciò perché il Re teme che ella possa soffrire delle proprie mancanze nel momento in cui scoprisse la propria condizione.
Anche la stanza in cui è chiusa Iolanta, riambientata nella visione di Trelinski da un castello medievale ad una foresta del centro Europa negli anni Quaranta, è una piccola baita tutta bianca addobbata con varie teste di cervo, che ci ricorda le stanze piene di animali morti in cui le dee bambine indiane debbono dormire per dimostrarsi esseri superiori. Il bianco, colore della cecità, ma anche della purezza di Iolanta, interpreta bene il carattere simbolista dell’opera ed è il leitmotiv di questa regia, funzionale e leggera, che gioca ad interagire con proiezioni video di animali, paesaggi e luci e ad inserire proporzioni fuori scala utilizzando figure di cervi giganti in apertura. Ciò fa da contraltare ad una ricerca musicale dai grandi slanci melodici, concentrata a servire il libretto, ma facendoci in questo modo apparire poco coesa la struttura dell’intera opera.
La prima del 28 aprile si è caratterizzata per la sostituzione all’ultimo momento del basso Alexei Tanovitski (presente nella recita del 5 maggio) nella parte di re René con Ilya Bannik (interprete anche delle serate del 30 aprile e 3 maggio). Bannik è stato l’interprete più splendente di questa messinscena, sia per una scrittura che ci sembra per tutta l’opera favorire le voci maschili, sia perché al suo personaggio è affidato il brano più importante e conosciuto l’Arioso nella IV scena, unico brano di tutta l’opera ad essere entrato a pieno titolo nel repertorio solistico. Le innegabili qualità vocali ed attoriali di Bannik fanno il resto. Ma anche Vsevolod Grivnov (Vaudemont) e Mikołaj Zalasiński (Robert) nelle parti dei due amici-rivali che si contendono l’amore ed il destino di Iolanta, sono di grande presenza e dimostrano una capacità d’interazione che solo una produzione già collaudata può offrire al pubblico ad una prima. È Victoria Yastrebova ad interpretare la principessa che alla fine riacquista la vista e trova l’amore di Vaudemont. Una parte vocalmente ardua di un personaggio spesso presente in scena che deve gareggiare per massa sonora con parti maschili particolarmente possenti. La Yastrebova affronta tutto ciò con fine sicurezza facendosi valere.
L’orchestra e il coro del Maggio Musicale Fiorentino ci regalano un’esecuzione brillante, con vari assoli e molto spazio lasciato ai fiati grazie alla concertazione sicura e coscienziosa di Stanislav Kochanovsky. Un finale con il coro vestito da camerieri, che spunta dal nulla in mezzo al bosco, ci fa pensare un po’ ad un escamotage che molto probabilmente nell’originale ambientazione del castello medievale non avrebbe creato problemi, ma che qui stona. Un teatro gremito, neanche a dirlo, dove abbiamo notato una grande presenza di pubblico di lingua russa, visibilmente soddisfatto della programmazione del teatro. La scelta del Maggio si è rivelata vincente.
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