Al Carlo Felice il titolo di Puccini: di forte impatto l’impianto scenico di Davide Livermore, Francesco Meli è un Cavaradossi molto convincente
di Attilio Piovano foto © Marcello Orselli
Per una volta – se per assurdo fosse concesso – si sarebbe dovuto mutare il titolo riformulando Il cavalier Cavaradossi (o qualcosa del genere). Già, perché il vero protagonista di questa Tosca andata in scena al Carlo Felice di Genova la sera di mercoledì 4 maggio 2016 (e si tratta di una ripresa dell’allestimento della scorsa stagione), è stato proprio lui, Francesco Meli, nel ruolo per l’appunto del pittore Mario Cavaradossi. E lo si è compreso fin dall’iniziale e celeberrima «Recondita armonia», affrontata con centellinata pacatezza, un’eleganza e un magnetismo davvero indicibili: tecnica sicura, voce possente, stentorea e duttile al tempo stesso, molta espressività, niente inutili gigionismi e irresistibile appeal. Il vero e proprio clou con «Lucevan le selle» accolta da protratti e calorosissimi applausi. Meli, immobile sulla scena, che si godeva il trionfo; poi un gesto, le mani che si portano al viso, l’evidente commozione che inizia a sopraffarlo, dinanzi al ‘suo’ pubblico, protagonista nella ‘sua’ città, una breve intesa con il direttore e la decisione di bissare per intero il commovente evergreen che conduce alla concisa parte conclusiva, ovvero al tragico epilogo del capolavoro pucciniano. Non solo: Meli possiede spiccate doti attoriali che ne fanno un artista completo dalla indiscussa ed ammirata professionalità.
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Per contro la Tosca della pur valida Amarilli Nizza ha convinto solamente in parte, certo non le giova quel suo eccessivo (e un po’ datato) vibrato; a dire il vero la parte non sembra esserle del tutto congeniale. Ha riscosso innegabili consensi, questo sì, soprattutto nel finale dell’opera (dove a dire il vero è sempre facile commuoversi dinanzi alla vicenda e per il pubblico spesso le caratteristiche vocali della protagonista passano per così dire in secondo piano). Il suo «Vissi d’arte» non ha certo tenuto col fiato sospeso come di norma accade, o meglio come è opportuno che accada, ed è scivolato via un po’ così così. Da consumata attrice ha pur tuttavia tenuto testa al perfido Scarpia comme il faut, infierendo poi sul suo corpo con insolita (e francamente eccessiva) ferocia, infliggendogli un numero incredibile di coltellate (ma qui la ‘colpa’ è semmai della regia che evita altresì di farle recuperare il salvacondotto dalle mani serrate di Scarpia, chissà perché: è un gesto ineludibile e pazienza per la mancata pantomima dei due candelieri); sicché la fatale conclusione dell’atto secondo, suggellata dal tema di Scarpia tramutato in connotati funerei, coi timpani sommessi e quegli ultimi suoni soffocati, ha finito per perdere tutta la sua vis tragica (appunto) e la sua efficacia teatrale, dopo la risibile performance delle troppe coltellate: sul petto, sulla schiena, ogni dove (e in parecchi hanno sorriso apertamente). Amarilli Nizza, inoltre, ha dizione per nulla chiara e talora si stenta a comprenderne le parole con aperture anomale su certe vocali. Qualche eccesso dinamico (per non farsi sovrastare dall’orchestra, e pur invano).
Angelo Veccia ha sbozzato uno Scarpia abbastanza cattivo e insinuante quanto occorre, più sul piano attoriale, a dire il vero, che su quello vocale; avremmo voluto più incisività, sia in «Tre birri e una carrozza», sia ne «La mia povera cena fu interrotta»; spesso la sua voce (come pure quella di altri interpreti) veniva soverchiata dall’orchestra: e qui occorre citare la direzione di Dmitri Jurowski, a onor del vero assai poco pucciniana. Tenere sempre l’orchestra dal mezzo forte in su non si addice di certo a Tosca che richiede mille sfumature, eleganza di tratto, anche leggerezza, visione d’insieme, nel contempo, e non ‘squadrate’ cesure. E anche nei pezzi di massa, quali il sublime Te Deum, occorre calibrare il tutto con millimetrica esattezza e precisione per ottener quel climax, sonoro ed emozionale, che del finale atto primo è ingrediente essenziale. L’orchestra ha fatto del suo meglio, anzi a dire il vero ha suonato ottimamente, pur obbedendo alle non sempre condivisibili scelte del ‘poco pucciniano’ Jurowski. Incisivo e convincente l’Angelotti di Giovanni Battista Parodi, così pure apprezzato il sagrestano di Matteo Peirone, ancorché un po’ troppo ‘caricato’ sul piano attoriale, ma ci può stare: in fondo la sua parte possiede caratteri popolareschi, qualche gesto qua e là eccessivamente corrivo, ma ha una vocalità di tutto rispetto e una chiara dizione. Bene i comprimari, l’ottimo Enrico Salsi (Spoletta), Raffaele Pisani (Sciarrone), Filippo Balestra (il carceriere) e Thomas Bianchi (il pastorello) che sembra aver preso fin troppo sul serio la sua particina. Ottima la prova fornita sia dal coro, sia dal coro di voci bianche (istruiti rispettivamente da Pablo Assante e Gino Tanasini).
Di forte impatto l’impianto scenico concepito da Davide Livermore, che firma altresì regìa e ottime luci (ora cupe, ora livide). Un impianto tutto giocato su un doppio piano inclinato triangolare che ruota alludendo, di volta in volta, ai vari luoghi in cui l’azione si svolge. E l’elemento triangolare predomina anche nella doppia balaustra in primo piano sovrastata da candele. Di rilievo alcune soluzioni invero centrate. E allora ecco la piattaforma stessa che converge sulla ‘postazione’ elevata da cui Cavaradossi lavora al ritratto della Maddalena, ponendolo in posizione privilegiata; bene poi nel second’atto aver giocato su due piani scenici: quello elevato per l’appartamento di Scarpia a Palazzo Farnese, tutto marmi bianchi (un tavolo chissà perché assai piccolo) e la stanza della tortura, giù in basso, come se si trattasse di ‘segrete’. Ma aver trasformato (in apertura) la cappella degli Attavanti in una cripta è già un poco più discutibile, così pure far pregare la Vergine chiedendo a Tosca di rivolgersi alla sala lascia perplessi. Desta altresì stupore l’irrompere in Sant’Andrea della Valle di una pletora di popolani, storpi, cenciosi.
Di nuovo felice la soluzione nel terz’atto per il luogo della fucilazione, ovvero gli spalti dai quali ‘dovrebbe’ (il condizionale è d’obbligo) gettarsi Tosca, e la cella in cui è rinchiuso Cavaradossi prima della condanna. Livermore, nelle note di regia, dichiara di essersi ispirato al cinema: di Magni, di Hitchcock, di Wenders e Fellini, alludendo alla possibilità di «modificare lo spazio e creare differenti angolazioni». In realtà la piattaforma ruota troppo, e troppo spesso, a nostro avviso; il teatro poi non è una macchina da presa, né un set, né una giostra, e il tutto talora finisce per distogliere l’attenzione. Discutibili alcuni eccessi didascalici (quell’inutile enorme Crocifisso che campeggia proiettato nel primo atto – che c’entra? – e che poi diviene simbolo e contraltare dello stesso Cavaradossi torturato, in atteggiamento come di certi quadri di Goya). Eccessivamente didascalico il colore rosso fuoco che campeggia sul fondo quando Tosca medita di uccidere Scarpia, inoltre distrae un po’ troppo il tramestio di chierichetti, per riempire a tutti i costi la scena di gesti e presenze, e un singolare passaggio di camerieri da basso, mentre Scarpia si ‘intrattiene’ con Tosca. Soprattutto intenzionalmente kitsch l’angiolone d’ordinanza che domina gli spalti e nel momento estremo del sacrifico di Tosca si anima, quasi ribellandosi, con effetto discutibile, mentre Tosca (controfigura) resta immobile sulla balaustra evitando di gettarsi. Appropriati e tradizionali i policromi costumi di Luca Falaschi (rosso imperante sia per Tosca sia per Scarpia con evidente allusione alla passione ed al sangue). Buon successo e molti applausi in un teatro gremito all’inverosimile; quattro sole recite che vanno ad aggiungersi alle molte repliche della scorsa stagione.
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