di Gianluigi Mattietti foto © Yasuko Kageyama
Opera di puro belcanto, Linda di Chamonix fu nell’Ottocento tra i titoli più amati di Donizetti, e anche tra i più rappresentati, in tutta Europa. Poi cade a lungo nell’oblio. Si è vista ora al Teatro dell’Opera di Roma, dove mancava da più di un secolo, come titolo di fine stagione, in un bell’allestimento già presentato al Gran Teatre del Liceu di Barcellona. Melodramma semiserio, non è solo un geniale mix di stili, ma una partitura ricca di invenzioni, di arie e duetti molto elaborati, caratterizzata da una scrittura armonica piuttosto ricercata, dal ricorrere di alcuni Leitmotiv. Riccardo Frizza, sul podio, ha colto bene le finezze dell’orchestrazione, ha sottolineato i contrasti e gli echi mozartiani e rossiniani che pervadono l’opera, avendo sempre cura di far emergere il canto, anche nei momenti di più densa scrittura orchestrale. Non è riuscito però a tenere sempre alta la tensione, e per questo l’esecuzione musicali risultava, a tratti, un po’ sbiadita.
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Donizetti compose Linda di Chamounix per i migliori cantanti dell’epoca, a partire dalla mitica Eugenia Tadolini, che incantò il pubblico nel ruolo di Linda. Buono complessivamente il livello del cast sentito a Roma. Protagonista era Jessica Pratt, cantante molto musicale, dalla voce limpida, omogenea, agilissima nelle colorature più estreme (nonostante qualche problema nella dizione e degli acuti un po’ taglienti), brava a cogliere le varie sfaccettature espressive di Linda, l’amore, la fragilità, il tormentato rapporto col padre, la follia. Qualche limite vocale emergeva nella prova del tenore spagnolo Ismael Jordi, bel calato nel ruolo di Carlo, dotato di un fraseggio espressivo, ma con una voce un po’ aperta, e titubante negli acuti. Bruno De Simone riusciva a imprimere una grande verve al personaggio comico del Marchese di Boisfleury, con le sue galanterie un po’ goffe, i toni insinuanti, senza però mai scadere nella caricatura e evitando le sguaiatezze eccessive. Ottimi anche Roberto De Candia, nel cogliere il carattere orgoglioso di Antonio, padre di Linda, con la sua voce insieme solida e brillante; la georgiana Ketevan Kemoklidze, un Pierotto dalla voce calda e dall’emissione molto morbida; il tonante Christian Van Horn nei panni di un Prefetto in abito talare
La regìa di Emilio Sagi evitava le connotazioni paesaggistiche e anche la facile contrapposizione tra l’ambiente virtuoso delle montagne e quello peccaminoso della vita parigina. Ne risultava uno spettacolo elegante, ma un po’ statico (nonostante qualche trovata, come il teatrino di burattini che Pierotto animava cantando la sua cavatina) e incapace di tenere insieme una materia teatrale poco coerente (a causa del libretto) e priva di una reale continuità drammatica. Tutto appariva giocato su delicate sfumature di bianco (crema, beige, avorio), sia le scene di Daniel Bianco (nomen omen!), sia i costumi di Pepa Ojanguren: un paesaggio geometrico, senza montagne sullo sfondo, uno spazio quasi “metafisico”, ma con elementi belle époque, una foresta di alberi stilizzati nel primo atto, con tronchi bianchi che sembravano colonne, l’atrio di una casa signorile con una grande scalinata nel secondo; le festose luminarie e un lungo tavolo che attraversava tutta la scena nell’ultimo atto.
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