Le nuove generazioni protagoniste degli appuntamenti del festival altoatesino
di Gianluigi Mattietti foto © Max Verdoes
L ‘ALTO ADIGE FESTIVAL – FESTSPIELE SÜDTIROL si è ormai così legato alle Settimane musicali Gustav Mahler, da diventarne quasi una prosecuzione, offrendo a Dobbiaco una ricca estate musicale che si protrae da luglio all’inizio di settembre. Nell’auditorium dello storico Grand Hotel – dove è stata allestita anche una bella mostra dedicata ai due fratelli scultori di Gais, Heinrich (1897-1972) e Franz Bacher (1903-1981) – sono state ospitate quest’anno sette orchestre giovanili, provenienti da tutta Europa. Una scelta che risponde certo alle ragioni del budget, ma non solo: perché quel luogo al confine tra culture diverse ha l’ambizione di diventare un luogo di incontro, e di confronto tra le giovani generazioni di musicisti, una sorta di “Festival della Gioventù”. Stimolato dalla Rassegna internazionale delle orchestre giovanili di Berlino, il direttore artistico Hubert Stuppner ha impaginato un interessante programma con la Bayerische Landesjugendorchester diretta da Nicolas Rauss, la Gustav Mahler Jugedorchester (per la prima volta a Dobbiaco) diretta da Leo McFall, la National Youth Orchestra of Netherlands diretta da Antony Hermus, la National Romanian Youth Sinfonietta diretta da Horia Andreescu, la Südtiroler Jugendblasorchester diretta da Josef Feichter, la Monteverdi-Windband diretta da Thomas Doss, e l’Orchestra Haydn di Trento e Bolzano con l’aggiunta degli studenti dei conservatori dell’Euregio (la regione che comprende Trentino, Alto Adige e Tirolo austriaco) diretta da Arvo Volmer.
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I programmi di tutti i concerti mostravano una grande attenzione per i solisti emergenti e per la musica del Novecento, come hanno dimostrato i due concerti iniziali. Il festival si è aperto con un concerto della giovane orchestra rumena (nata come costola della Orchestra Giovanile di Stato della Romania, su iniziativa del violoncellista Marin Cazacu) e con il giovane violinista moldavo Dan-Julian Dutrac alle prese con il Concerto di Bruch: buona tecnica, grande sicurezza nei passaggi di agilità, precisione e grande intensità espressiva, soprattutto nel registro grave del suo strumento, mentre il suono risultava un po’ aspro negli acuti, e con un vibrato molto stretto. Le qualità dell’orchestra (formata da ragazzi tra i 18 e i 20 anni) sono emerse però appieno negli altri due pezzi in programma, la Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” e il Concert Românesc di Ligeti. Si è apprezzato soprattutto il suono caldo e ampio degli archi, la perfetta intonazione, lo spirito cantabile innato. Della Sinfonia di Dvořák, Andreescu (direttore della Orchestra Sinfonica della Radio Romena, ed ora guida della Filarmonica Enescu di Bucarest con la quale ha registrato l’opera omnia per orchestra dello stesso Enescu) ha offerto una lettura sanguigna, trascinante, ma lucida nel tessere la trama drammatica, con tempi molto rapidi (anche nel celebre tema cantabile del secondo movimento che risultava più drammatico che elegiaco) e temi sempre ben sagomati, in un gioco continuo di tensioni, che sfruttava abilmente le fluttuazioni temporali e i trascoloramenti degli impasti orchestrali, anche nel rutilante finale. Peccato solo per la macchinosità e una certa asprezza degli ottoni che appesantivano la texture orchestrale. Nel Concert Românesc, composto nel 1951 da un Ligeti non ancora trentenne, il direttore rumeno ha fatto emergere la grande fantasia di temi folkloristici nei quattro movimenti, e il carattere gioioso che li pervadeva, dipanando con estrema chiarezza, e competenza stilistica, il fitto intreccio di melodie modali, danze popolari, distorsioni armoniche, invenzioni timbriche, effetti di evaporazione, pulviscoli sonori. Un collage di elementi eterogenei, concepito da Ligeti come un diario di ricordi personali, di gite sui Carpazi, memorie di suonatori di bucium e cimpoi, di visite ai musicisti di paese, e di rituali sciamanici ancora vivi tra i pastori rumeni.
L’orchestra giovanile bavarese, per la seconda volta a Dobbiaco, ha suonato invece insieme a una giovane violinista coreana, Jehye Lee, che si è cimentata con il Concerto di Čajkovskij: la grande musicalità con cui accompagnava ogni frase era un po’ penalizzata dal suono esile nel registro acuto e da un approccio troppo misurato con le parti più virtuosistiche. Anche l’orchestra appariva molto precisa, ma un po’ ingessata, nonostante la grande energia ritmica impressa da Nicolas Rauss nel terzo movimento. Più riuscita è parsa l’esecuzione della Settima di Dvořák, esempio della perfetta sintesi raggiunta dal compositore tra la logica costruttiva derivata dalla tradizione tedesca ed elementi popolari della musica ceca. Si è ammirata la grande cura nel sagomare i gesti drammatici, d’impronta beethoveniana, dell’Allegro maestoso, nel sottolineare le grandi espansioni liriche del Poco Adagio, e la loro varietà timbrica, nel cogliere l’atmosfera visionaria dello Scherzo, col suo “furiant” dal piglio ritmico e popolaresco, nel dare risalto agli slanci drammatici del eroico finale. Ottime, in questa orchestra tedesca, le parti dei fiati, soprattutto i legni. Per soli archi era invece il pezzo moderno, il Requiem di Tōru Takemitsu (composto nel 1957 quando il compositore giapponese aveva 27 anni), eseguito con grande morbidezza, restituendo l’intensa espressività dei tre movimenti lenti, fatti di dense armonie e di grandi bolle sonore intrise di lirismo.
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