di Santi Calabrò foto © Rosellina Garbo
Madama Butterfly presenta diversi aspetti adatti a sollecitare le tendenze all’attualizzazione degli elementi narrativi e allo spostamento temporale del contesto originario: alludere al turismo sessuale o riportare a misura odierna il tema dello scontro di civiltà sono sicuramente fra le tentazioni che pungono i registi con ambizioni innovative. Per fortuna si tratta anche di un’opera per buona parte “blindata”, che poco consente alle intenzioni più ardite – quando anche peregrine o fuori luogo – di alterarne il senso. Nel caso della produzione in scena a Palermo, in un nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con il Macerata Opera Festival, il carattere incontrovertibile dell’opera non ha dovuto esercitarsi più di tanto: la regìa di Nicola Berloffa si sostanzia di diverse idee originali, ma lo fa con misura, non arrivando a concepire l’opera come “politica” e riconoscendone in partenza la prevalente – e di fatto inscalfibile – dimensione di dramma psicologico. Col risultato che in certi momenti le peculiarità di questo allestimento quanto a cornice e ad ambientazione scivolano senza disturbare, e in altri lasciano buoni spunti di interazione con la drammaturgìa di Puccini.
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Lo spostamento dell’azione di mezzo secolo – Berloffa ambienta l’opera negli anni che precedono il 1950, subito dopo la seconda guerra mondiale – restituisce un’atmosfera, una tonalità scenica, molto simili a quella di allestimenti stilizzati che rispettano la datazione originale; il luogo realizzato dallo scenografo Fabio Cherstich – l’interno di un teatro tradizionale giapponese, del cui palcoscenico fa parte anche la casa di Pinkerton, che nel secondo atto diventa un cinema per i soldati americani – è bello da vedere, elegante e funzionale. Poco incisiva di per sé, la licenza del cinema permette la risorsa aggiunta delle proiezioni, e qui si realizza uno dei colpi più audaci ma anche più riusciti della regia: sul coro a bocca chiusa, in conclusione del secondo atto, Butterfly assiste alla sorridenti e coreografiche evoluzioni subacquee di… Esther Willams! La dilatazione temporale si colora così di onirismo e, in effetti, cosa c’è di più adatto di un sogno tutto americano per Cio-Cio-san?
Butterfly ha qui la voce di Hui He: vocalmente più a suo agio nelle parti più liriche che in quelle più drammatiche, ma sempre capace di un buon equilibrio complessivo dell’enunciazione. Accanto alla protagonista, una precisa ed espressiva Anna Malavasi come Suzuki e un Pinkerton potente e caldo – il tenore Brian Jagde – arricchiscono il cast, insieme all’elegante Sharpless di Vincenzo Taormina. La debolezza vocale di Mario Bolognesi (Goro) non gli permette una prestazione all’altezza, mentre Manrico Signorini (Lo zio Bonzo) e Vittorio Albamonte (Yamadori) sono più efficaci. L’orchestra diretta da Jader Bignamini non inizia benissimo, dando enfasi eccessiva (e non molta chiarezza) all’intarsio di motivi, ma quando l’azione va al dunque o nei momenti più intensi il livello dell’esecuzione si alza e sostiene bene i cantanti. Prima dei lunghi applausi finali, diverse acclamazioni entusiastiche, soprattutto per Hui He.
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