di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
NELLA QUESTIONE INFINITA riguardante le quattro o cinque versioni di Madama Butterfly che hanno segnato la storia del capolavoro pucciniano mancavano almeno due azioni riparatrici per troppo tempo rimandate. La prima era rappresentata da una esecuzione scaligera che riscattasse il fiasco della versione originale del 1904, un insuccesso che verrà vissuto dall’autore come una ferita non rimarginabile. La seconda dovrà concretizzarsi in una nuova versione critica di Madama Butterfly, che nasce già in maniera contraddittoria perché è opinione comune di tutti gli studiosi che di “versione definitiva” non ha senso parlare. Piuttosto non sarà facile scegliere quale partitura adottare come nucleo fondamentale attorno al quale la nuova edizione – tra l’altro necessaria anche al fine di ristabilire un copyright che è oramai scaduto – possa proporre la riapertura dei tagli o l’esecuzione di parti alternative.
La tragedia si sviluppa secondo un ritmo lento ma implacabile impresso dal direttore e la regìa opera un lavoro di scavo straordinario della psicologìa dei personaggi principali
La scelta di Riccardo Chailly, che già aveva inserito alcuni tratti espunti dalla versione originale dell’opera nel momento in cui aveva preparato per il teatro milanese l’edizione andata in scena nel gennaio 1996, cadeva, per il Sant’Ambrogio di quest’anno, appunto sul ripristino totale di quella antica prima versione in due atti, che notoriamente era stata bocciata dal pubblico per una miriade di motivi, alcuni dei quali poco o punto avevano a che fare con la reale stesura dell’opera stessa.
Ponendosi al di fuori delle questioni ora accennate, era necessario recuperare oggi l’oggetto di tanto fiasco, come del resto era già stato fatto alla Fenice nel lontano 1982 e in altri teatri? La risposta è affermativa a patto che si avanzi un distinguo fondamentale. Non vi è infatti dubbio che dal punto di vista strettamente drammaturgico la prima versione getti una luce tutta particolare sull’insieme, ponendo in risalto aspetti che successivamente verranno relegati in secondo piano. È il caso della riapertura dei tagli maggiori, effettuati nelle versioni successive a quella del 1904, tagli che avevano di molto attenuato sia tutta la problematica relativa all’opposizione avanzata da parte della vecchia società giapponese nei confronti della cultura e delle usanze occidentali, sia da parte opposta l’atteggiamento irriverente e beffardo di Pinkerton nei confronti di una mentalità a lui del tutto estranea. Se a questo aggiungiamo altri particolari, come la maggiore presenza della moglie americana del Tenente, o quella di Yakusidé nel primo atto, il quadro tende a raggiungere una completezza degna di nota e passibile di un non indifferente scavo interpretativo.
Ma se guardiamo al lato puramente musicale il discorso cambia. La musica di Puccini, almeno quella di opere come Butterfly, Bohème o Tosca, è talmente aderente al carattere dei personaggi e alla descrizione delle situazioni che potrebbe al limite essere intesa perfettamente anche in assenza di una esecuzione scenica e cantata. Avremmo forse qualche dubbio nell’identificare qui nell’armonia infinita degli accordi aumentati l’ingresso della fanciulla, o nell’aspra strumentazione il momento del suicidio? Potremmo davvero dubitare che una marcia straziante si identifichi con la finta-vera esecuzione di Cavaradossi o che i ben noti motivi del primo quadro di Bohème identifichino il duetto di Mimì e Rodolfo?
Non era facile, dopo la bellissima regìa di Keita Asari che ha accompagnato tutte le recite di Madama Butterfly alla Scala dal 1985 fino al 2007, introdurre una nuova produzione che facesse per un momento dimenticare l’essenziale semplicità
Ecco allora che la riapertura dei tagli in questa Butterfly poco altera l’equilibrio strettamente musicale dell’opera: il patrimonio tematico di fondo resta praticamente intatto e questo è il motivo per cui l’integrità musicale del lavoro si dimostra praticamente indipendente dalle versioni adottate. In altre parole, la Madama Butterfly amata dal pubblico è una e una sola, frutto della sedimentazione di diversi aggiustamenti avvenuti nel tempo. Che poi la ripresa della versione originale abbia spinto Chailly a raggiungere i risultati eccezionali di questa prima scaligera, è tutt’altro discorso, avendo più a che fare con una questione di dilatazione dei tempi. Chailly va oltre una concezione classica di Butterfly, entrando nei meandri dell’opera come se fosse uno speleologo alla ricerca di tesori nascosti e immedesimandosi nella scansione lenta e straziante della tragedia della protagonista a tal punto da forzare la tensione della musica di Puccini fino ad arrivare a momenti di contemplazione che sembrano sospesi nel tempo. Non sappiamo come sia possibile per un direttore reggere una simile concentrazione, dominare il materiale sonoro in questo modo per un numero non indifferente di recite che popolano il prossimo cartellone della Scala nei mesi di dicembre e di gennaio.
Non era facile, dopo la bellissima regìa di Keita Asari che ha accompagnato tutte le recite di Madama Butterfly alla Scala dal 1985 fino al 2007, introdurre una nuova produzione che facesse per un momento dimenticare l’essenziale semplicità, l’immensa poesia che caratterizzavano quella proposta. La sfida, colta da Alvis Hermanis ha superato degnamente la prova e ci ha rivelato – le grandi opere accettano spesso differenti punti di vista – una Butterfly vista da una angolazione tutta particolare, dove il martirio della bimba dagli occhi pieni di malìa è parte di un ben più ampio congegno che vede la complicità tra gli “invasori” americani e la rete familiare locale, incurante di sacrificare la giovane Cio-Cio-San per interessi di bassa lega, salvo poi ripudiarla con vergogna.
Non particolarmente nuovi erano i riferimenti al teatro Kabuki, già ampiamente sperimentati nella regìa di Asari, mentre idee originali andavano ad alimentare una lettura che è stata compiuta sicuramente in pieno accordo con Chailly e con la sua concezione dei tempi. La tragedia si sviluppa secondo un ritmo lento ma implacabile impresso dal direttore e la regìa opera un lavoro di scavo straordinario della psicologìa dei personaggi principali, sottolineando il crescendo di angoscia che caratterizza il sentire della protagonista e di riflesso quello di Suzuki, l’imbarazzo sincero di Sharpless, l’odioso comportamento di Pinkerton, che da vitellone innamorato e a tratti credibile si riduce a un personaggio assai sgradevole nella sua codardia, quando si rifiuta, dietro alle lacrimucce, di affrontare la disperazione della moglie abbandonata. Nel finale, risolto ancora alla maniera di Asari con la presenza di comparse che aiutano la protagonista ad apparecchiare il rito del suicidio, Pinkerton segue le indicazioni del libretto giungendo, seppure in ritardo, sulla scena, là dove altre regìe preferiscono mantenere il personaggio dietro le quinte e farne udire solamente il grido di richiamo a Butterfly.
All’essenzialità dei costumi di Hanae Mori questa volta si è sostituita l’estrema raffinatezza, ricchezza e allo stesso tempo impalpabilità di quelli di Krīstine Jurjāne, contrappunto indispensabile alla concezione di Hermanis di una protagonista fragile come farfalla. Le scene dello stesso Hermanis e di Leila Fteita si rifacevano a strutture multilivello che si affacciano su paesaggi di rito o vengono completate con pannelli che riprendono le raffigurazioni tipiche delle stampe giapponesi o le illustrazioni Liberty che avevano spopolato all’epoca dell’apparizione dell’opera pucciniana. Di particolare impatto era l’americanizzazione dell’abitazione di Cio-Cio-san all’inizio dell’atto secondo, quasi che il tempo trascorso nell’attesa di Pinkerton avesse avuto effetto sulla occidentalizzazione dell’ambiente giapponese. Bellissima la scena finale, con un giardino dei ciliegi e peschi di infinita poesia che fa da cornice agli ultimi tragici avvenimenti.
La Scala vanta una tradizione più che eccellente nella scelta dei cantanti che in 112 anni si sono succeduti sul palcoscenico nei ruoli principali dell’opera, ma anche in questo caso non è secondario sottolineare come molte Butterfly da sogno (la Callas, la Tebaldi, la Caballé, la Freni …) in realtà non misero mai piede in teatro in quello specifico ruolo. Ancora una volta l’immaginario collettivo si riferisce a una moltitudine di voci che non necessariamente hanno avuto a che fare (come Butterfly!) con la storia della Scala, ma che risuonano vive come non mai. Maria José Siri è non soltanto un soprano di grande valore, ma anche una interprete di sensibilità eccezionale che ha messo a punto il proprio ruolo con una acutezza pari a quella dimostrata da Chailly nel sottolineare i caratteri più reconditi del personaggio. Bryan Himel ha dato figura e voce a un Pinkerton aitante e forse inconsapevole del dramma che era stato da lui innescato, ma allo stesso tempo non ha convinto del tutto per la sua prestazione puramente vocale, che faceva perno su una emissione spesso mancante di sfumature. Carlos Álvarez disegnava uno Sharpless giustamente angosciato da quanto andava accadendo e regalava al teatro momenti di superba vocalità e Annalisa Stroppa dava non solo voce a una Suzuki amorevole custode dei sentimenti della padroncina ma si rivelava attrice di grande spessore. Di gran lunga più vistoso rispetto alla tradizione era il ruolo dello zio ubriaco Yakusidé, affrontato da Leonardo Galeazzi. Applauditi il Goro di Carlo Bosi, lo Yamadori di Costantino Finucci, e lo Zio Bonzo di di Abramo Rosalen.
Non si sarebbe potuto giungere al compimento di questo progetto, naturalmente, senza la guida di Riccardo Chailly, che non scopriamo certo oggi essere interprete elettivo del teatro pucciniano e di Madama Butterfly in particolare. A lui sono stati rivolti gli applausi più convinti da parte del pubblico che, in questa occasione, era privato di gran parte delle presenze istituzionali a causa dell’attuale crisi di governo.