Il centenario della nascita del politico italiano. Grande successo alla prima assoluta dell’opera firmata da Sandro Cappelletto e Daniele Carnini commissionata dall’Accademia Filarmonica Romana
di Simone Ciolfi foto © Giusto/Carabella
Fra i compiti rituali dell’opera musicale c’è quello di rievocare i defunti, sia per lenire il dolore della perdita, sia per favorire un processo educativo e purificante. Perché in teatro i defunti ci visitano come in sogno, reclamando giustizia e un luogo nella memoria di chi sopravvive. Sandro Cappelletto e Daniele Carnini hanno rievocato Aldo Moro in Un’infinita primavera attendo, un’“opera italiana”, come loro sottolineano (non un melologo, non un genere nuovo), rappresentata venerdì 9 dicembre al Teatro Palladium per l’Accademia Filarmonica Romana. E lo spirito di Moro è tornato nel testo di Cappelletto, che ha ben giocato sul compromesso che il linguaggio trova con la realtà; quella della società, ma anche quella dell’interiorità. Perché questo è il nodo più delicato: quanto ambiguo possa diventare il linguaggio per salvare gli equilibri della politica, gli interessi e i diritti del singolo. Di sicuro c’è un punto in cui tale impegno diventa controproducente, perché alcuni avvertono di non essere più tutelati, e l’isolamento finale di Moro ce lo testimonia.
L’opera si regge tutta sul testo e sul canto, che rappresentano la dimensione storica della narrazione, l’elemento coagulante; la parte orchestrale è invece la dimensione profonda, quella del non detto, forse dell’inconscio. Un gioco di equilibri che ha ascendenze nella tradizione dell’opera, ben conosciuta dagli autori. Lo spettatore segue, dunque, senza saperlo, un doppio binario, stimolante per il senso critico e per il piacere polifonico della percezione.
Il canto è sempre pericoloso nell’opera contemporanea, poiché è l’elemento più difficile da piegare alla rappresentazione del presente. Carnini riesce, però, a trasfigurarne i tratti facendone il segno di ciò che c’è di distorto e sofferente nei personaggi. In generale, dalla partitura promana un’ispirazione figurale, mimetica, che si ispira alle immagini e agli spunti del libretto. In più, dalla musica proviene quel fattore di nostalgia e d’attesa, svelata dal titolo, che per noi tutti ha sempre il gusto della speranza (in una società migliore, in un mondo migliore?) e che finisce per diventare metafora della speranza stessa di Moro, speranza religiosa, nutrita di fede. Il Cardinale ricorda un po’ un inquisitore, la sua violenza è stata ben suggerita, ma si finisce per sovrapporlo ad altre figure simili della tradizione operistica. Potente il concertato finale della scena ultima, punto di grande pregio dello spettacolo.
C’è di buono nell’opera, che non la si avverte come una produzione troppo attuale, ma come uno spettacolo fuori dal tempo. Si comprende anche senza riferimenti storici, e, in fondo, l’unico personaggio storico è il Presidente, cioè Moro. La scena è senza tempo, e le proiezioni le donano profondità e movimento. In questo l’opera, in generale, si differenzia dal cinema e dalla televisione: c’è la concretezza dei luoghi e la virtualità dello schermo, che insieme aumentano, come prima si diceva, la polifonia della percezione.
Il tutto ha convinto: voci, strumentisti, direttore, regia. Dal tutto promana un senso di omogeneità, si avverte che le varie componenti dell’opera, spettacolo quanto mai delicato e complesso, si potenziano l’una con l’altra. Meno convincente la presenza dei lottatori Aikido, che sono riuscito a spiegarmi solo dopo la lettura del libretto. Ammirevole da parte di tutti il profondere impegno sociale nell’opera, perché da una parte ciò rivela l’importanza che gli autori danno allo loro creazione, dall’altra è un sollievo, almeno per chi vive in un mondo di svenevoli stupidaggini televisive. Un aspetto storico, anche questo dell’impegno, veramente ben attualizzato.