di Santi Calabrò foto © Rosellina Garbo
SCENE E ABITI BORGHESI di metà Ottocento costituiscono una scelta corretta per La traviata non solo in senso filologico, ma in quanto possono sottilmente alludere al sistema di valori morali e sociali proprio a Germont padre, che è una componente così importante dell’intreccio. Anche un’ambientazione in stile Liberty, tuttavia, è da accogliere con favore: perché l’eleganza si addice all’opera di Verdi e perché alleggerisce l’orizzonte, evocando un quadro morale più indefinito o perlomeno l’allentamento di vincoli e tabù oppressivi. E se le vicende della vita di una cocotte diventano l’occasione per sviluppare il dramma di una delle eroine più commoventi che abbiano mai calcato la scena dell’opera, c’è sicuramente da dubitare del peso che la fabula fornita dalla fonte letteraria di Dumas assume nella Traviata; un ethos perbenista, determinante in quanto motore del dramma, non acquista nell’opera alcuna reale plasticità in quanto sentimento e non può minimamente scalfire la centralità delle vicissitudini interiori della protagonista.
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Del resto, i valori del padre di Alfredo non resistono al suo pentimento dell’ultimo atto. In questo senso, si potrà ancora capire come la commozione che trasmette Violetta sia di tipo empatico, ci riguardi, e si potrà tranquillamente sottoscrivere quanto dichiara Mario Pontiggia, regista della nuova produzione della Traviata che ha debuttato al Teatro Massimo di Palermo: «La chiave di tutto è il senso di colpa… Violetta non è una prostituta come oggi la possiamo intendere, è una donna che frequenta i migliori salotti e che ha una sensibilità e una formazione culturale di alto livello». In linea con queste convinzioni, il regista firma un allestimento fine e toccante, dove la misura dei gesti si inscrive in una cornice Art Nouveau che è difficile immaginare più bella. Il Villino Florio, il giardino di Villa Whitaker, i disegni di Ernesto Basile per il Teatro Massimo sono il modello su cui si esercita la sontuosa emulazione di bellezze architettoniche palermitane nelle scene di Francesco Zito (cui si devono anche i costumi) e Antonella Conte. Per di più non solo la scelta del cast è di alto profilo, ma mostra caratteristiche che ben si integrano con l’impianto scenico e della regia. A dirigere il tutto è il giovane e dotato Giacomo Sagripanti, di cui si apprezza soprattutto la concertazione calibrata che “doma” la strumentazione verdiana restituendo la pienezza espressiva della musica senza prevaricare il canto: il che in quest’opera è particolarmente appropriato. In modo opposto a un altro capolavoro degli stessi anni, Il trovatore, qui la musica di Verdi non fagocita il testo, ma lo illumina.
Con queste premesse, proporre Jessica Nuccio come Violetta è una scelta vincente. Non a caso negli ultimi anni la Nuccio si è imposta fra le più autorevoli interpreti del ruolo, per la sua vocalità sicura, per la capacità di variare il colore, e soprattutto per la subordinazione dei suoi “numeri” vocali alla chiara distinzione delle parole e del loro significato. Frequentare un ruolo così impervio significa alla lunga dominarlo e farsi apprezzare non solo nel dettaglio di un acuto che diventa illuminazione timbrica, ma anche nella visione d’insieme: la condotta vocale della Nuccio tiene il punto della situazione drammaturgica in modo sempre molto vigile (per esempio nella scelta di mantenere il volume più sommesso in tutto l’atto conclusivo, mentre la tisi assolve al suo fatale mandato). Nonostante debutti nel ruolo di Alfredo, René Barbera non sfigura accanto alla Nuccio; la vocalità di Barbera è molto omogenea nei registri, il fraseggio ben equilibrato, e il colore vocale ha il peso e la grana adeguati a questo genere di ruolo tenorile. Due curiosità caratterizzano questa produzione: in tutte le repliche, come alla prima, si apprezzerà il profumo “Violetta Valéry” diffuso in sala durante lo spettacolo, ideato in esclusiva dallo stilista Emanuel Ungaro e creato da Alberto Morillas; mentre solo alla prima nel ruolo di Germont padre ha cantato Leo Nucci.
Visto il livello della produzione, di entrambe queste concessioni alla logica del “grande evento” si sarebbe potuto tranquillamente fare a meno. Pubblico giustamente indifferente al profumo, e tuttavia ancora ammaliato da Leo Nucci, che in effetti riesce a imprimere una intenzione espressiva convincente al suo canto anche con una voce chiaramente usurata. Meritati applausi per tutti gli altri, sia per i menzionati protagonisti che per i comprimari, di buon livello. Dell’orchestra che risponde in modo accurato al gesto di Sagripanti si è accennato; buona anche l’intesa con il coro diretto da Piero Monti, anche se c’è stato qualche lieve sfasamento nel primo atto. Decisamente un bel debutto per una produzione che andrà in tournée in cinque città del Giappone dal 14 al 24 giugno.
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