di Stefano Cascioli foto © Michele Crosera
Sono numerosi gli eventi che si susseguono in ogni parte del mondo, per celebrare a dovere l’anniversario di Claudio Monteverdi. A 450 anni dalla nascita del sommo maestro, il Teatro La Fenice non poteva non omaggiare una figura così importante per la storia, musicale e non, della Serenissima. Già la proposta di rappresentare, in soli tre giorni, l’integrale delle opere di Monteverdi sino a noi pervenute (L’Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria, L’incoronazione di Poppea), a pochi passi di distanza da quella celebre Basilica in cui è stato per trent’anni maestro di cappella, si presentava ambiziosa. Se poi aggiungiamo che l’arduo compito sia stato affidato alle esperte, per non dire epiche mani di Sir John Eliot Gardiner, l’evento si è arricchito di un’aura ancor più profonda e affascinante. Non tanto per il carisma direttoriale, quanto per la figura che Gardiner rappresenta nel campo della musicologia e della filologia. Più di altri è stato lui, da decenni ormai, assieme ai suoi ensemble in ambo i sensi storici, lo strumentale English Baroque Soloists e il vocale Monteverdi Choir, ad aver contribuito in modo decisivo a quella “Monteverdi renaissance”, grazie a cui il genio di Cremona, al quale dobbiamo la nascita dell’opera lirica, è universalmente riconosciuto.
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L’impostazione di fondo della lettura di Sir Gardiner intende ricreare quell’ambiente scenico intimo più adatto alle dimensioni delle corti seicentesche e dei primi teatri, in modo che voci, orchestra e gesto possano interagire e fondersi in un’azione comune. Per questo motivo Gardiner rifiuta la buca (invenzione risalente appena al tardo Settecento), preferendo l’orchestra sulla scena. La regia, firmata dallo stesso Gardiner e supportata da Elsa Rooke, ripropone certe soluzioni che sono ricorrenti nelle rappresentazioni del maestro inglese: assenza di elementi sulla scena, movimenti dei personaggi sempre ridotti e calibrati, costumi molto semplici, con colori adeguati alla drammaticità scenica. Su quest’ultimo aspetto, ricordiamo il Terzo e Quarto atto de L’Orfeo, in cui la totale presenza di nero ha “chiaramente” condotto l’intero pubblico nei meandri dell’Inferno, così come lo stesso clima tetro accompagnava, nella Poppea, i vani tentativi dei famigliari di Seneca di convincere il filosofo a rifiutare il suicidio.
Un’altra caratteristica a cui Gardiner ci ha abituati, riguarda lo sfruttamento dell’intero spazio teatrale, per favorire una maggior dinamicità scenica. I personaggi non si muovono solo tra gli strumentisti, ma anche negli anditi della platea, spesso cogliendo di sorpresa l’uditorio, com’è accaduto per la sorprendente entrata dalla porta laterale dell’insolente figura di Iro (interpretato ottimamente da Robert Burt) nell’Ulisse. Ma è L’Orfeo, l’opera in cui il pubblico ha interagito maggiormente con gli esecutori, sicuramente una scelta di carattere filologico, dettata dalle modeste dimensioni di quel Palazzo Ducale mantovano, in cui, nel 1607, la Favola andava in scena per la prima volta. Dalla fanfara iniziale, all’entrata della Messaggera, passando per le danze spumeggianti di ninfe e pastori, la vicinanza tra esecutori ed ascoltatori era così marcata che persino Gardiner ha diretto in posizione decentrata, spalancando di fatto lo spazio per la scena.
Delle tre opere, forse era l’Ulisse la più ricca di sfumature registiche. Sofisticata l’idea di far tessere e disfare la tela di Penelope, filo conduttore dell’opera poiché simbolo dell’interminabile attesa, alle due flautiste mentre non sono impegnate coi propri strumenti. Di grande impatto pure la scena dell’arco (che decreta Ulisse vincitore sui Proci), in cui si intravede da lontano Minerva che mima i gesti e le parole di Penelope, rappresentazione ideale del deus ex machina, artefice del bramato ritorno e del ricongiungimento tra i due amati.
Esemplare la prova dell’English Baroque Soloists, in particolare per quanto riguarda la sezione degli archi (splendido l’estro virtuosistico, la conduzione e la cavata della spalla Kati Debretzeni) e del continuo, preparato con estrema minuzia da Gardiner, con l’apporto di un vastissimo numero di strumenti, comprendenti due clavicembali, organo positivo, arpa, viola da gamba, violoncello, arciliuti, chitarrone e chitarre battenti. Per quanto riguarda i fiati, qualche lieve stonatura dei fragili cornetti non ha per nulla compromesso l’ottima resa dei tutti orchestrali.
Eccezionale il cast, sia per la qualità canora espressa che per la tenuta costante nell’arco dei tre giorni. Ogni voce aveva una propria identità, merito di Gardiner aver saputo distribuire i ruoli più adatti ad ognuno, e aver trovato un giusto equilibrio tra cantanti giovani e voci più esperte, come quella di Furio Zanasi, protagonista indiscusso della seconda serata. Il grande baritono si è immerso alla perfezione nel ruolo di Ulisse, dal punto di vista sia scenico che canoro, poiché ha saputo rendere con autentica semplicità la disperazione del naufrago solo ed abbandonato.
Pura e candida la voce di Hana Blažìkovà, che ha interpretato magistralmente Poppea, ma soprattutto Euridice, di cui ha saputo comunicare la bellezza spontanea e gioviale, con gusto cristallino. I numerosi ruoli di basso sono stati affidati a Gianluca Buratto, ottimo Seneca e Nettuno (molto convincente il suo duetto col Giove di John Taylor Ward nel primo atto dell’Ulisse). Ne L’Orfeo, ci è parso più a suo agio nell’interpretare il sentenzioso Plutone che il selvaggio Caronte, in ogni caso una performance di ottimo livello, molto apprezzata dal pubblico veneziano.
Splendido l’Orfeo di Krystian Adam, sia per indiscusse qualità vocali che per presenza scenica, qualità confermate entrambe il giorno seguente con Telemaco. Più singolari, invece, le voci dell’Ottavia Marianna Pizzolato, maggiormente impostata e maestosa, ma pur sempre inerente al ruolo richiesto, e del Nerone di Kangmin Justin Kim, controtenore dal timbro molto chiaro, che ha compensato la leggerezza canora con una partecipazione scenica molto marcata, indispensabile per recitare lo spietato Imperatore. Doveroso citare, inoltre, la bellissima prova di Carlo Vistoli in Ottone e Anna Dennis, forse meno appariscente rispetto ad altre voci, ma altrettanto efficace in Drusilla e, soprattutto, in Melanto. Menzione speciale a Lucile Richardot, protagonista di tre serate strepitose. Voce scura e calda, timbro suadente, intonazione impeccabile, partecipazione teatrale molto coinvolgente, ha reso alla perfezione i ruoli della Messaggera, di Penelope e di Arnalta (di commovente tenerezza l’Oblivion soave).
Non ha ingannato le attese il Monteverdi Choir, sempre accurato e preciso, nelle seppur contenute pagine corali delle tre opere. Pulizia sonora nitidissima, perfetta dizione della lingua italiana ed ottimo impasto sonoro, ha regalato momenti di grande fascino, come il coro celeste del terzo atto dell’Ulisse, di apollinea bellezza.
Quello che colpisce maggiormente, al termine della colossale e magistrale trilogia, riguarda la presenza di un filo conduttore che ha tenuto collegate le tre serate. Pur essendo opere di argomenti e periodi diversi, si avvertiva la presenza di un’unica protagonista assoluta, rimasta sulla scena costantemente nelle quasi nove ore complessive, che è la parola. Ogni movimento, ogni nota, ogni scelta orchestrativa ed agogica, ogni flessione vocale, era diretta conseguenza del significato della parola. Quella parola che fonda sostanzialmente il pensiero musicale monteverdiano, nelle opere così come nei madrigali e nella musica sacra, e che permette, attraverso la codificazione e trasposizione nel linguaggio musicale, di creare immagini, sensazioni, emozioni. Per questo Monteverdi, ancora dopo 450 anni, risulta così attuale e moderno. Perché per primo ha saputo cogliere gli aspetti psicologici della musica, anello di congiunzione tra la parola scritta e il sentimento umano, tra l’oggetto e il soggetto, tra l’esprimibile e l’inesprimibile.
Il capolavoro di Gardiner, quindi, è stato nel saper trasmettere con sì tanta empatia e passione il valore degli affetti. Quelli antichi, come i testi ci insegnano, ma anche quelli moderni, e questo etereo corpus ne è sensuale testimonianza.
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