di Luca Chierici foto Francesco Bondi (© Accademia Teatro alla Scala)
Una delle opere più rappresentate nei paesi di lingua tedesca, Hänsel und Gretel di Humperdinck, è finalmente riapprodata alla Scala dopo quasi sessant’anni di assenza e una lunga serie di frequentazioni che avevano arricchito il cartellone del teatro dal 1902 – il primo allestimento si avvalse della direzione di Toscanini – al 1959, con oltre settanta recite, molte delle quali dedicate al pubblico dell’infanzia, e tutte in lingua italiana per la versione ritmica di Gustavo Macchi. Sul carattere wagneriano di questo lavoro ci sarebbe molto da dire, e molti sono gli spunti tematici e ritmici che rimandano a luoghi celebri e ben noti a tutti (un esempio a caso, il motivo dominante-tonica che sigla l’ingresso di Fafner e Fasolt nel Rheingold) ma è innegabile che ben più interessanti dal punto di vista storico siano qui le anticipazioni di molti luoghi straussiani, fatto questo che spiega il grande amore di Richard II verso il capolavoro di Humperdinck, del quale diresse la prima esecuzione a Weimar nel 1893.
Di carattere wagneriano del resto si parlò fin dai primi tempi, anche per la ovvia constatazione secondo la quale di prestiti straussiani non si poteva ancora cronologicamente discettare. Eppure tutto il nucleo del sentire straussiano sui luoghi comuni della famiglia, dei bimbi che fanno le marachelle, dei genitori che magari sono in disaccordo ma poi si riappacificano in un gaudio finale sono già tutti qui, parte in questa fiaba dei fratelli Grimm e maggiormente nella musica di Humperdinck che in questi casi diventa smaccatamente tonale e consolatoria. Come non accorgersi del fatto che il clima musicale di Intermezzo, della Sinfonia Domestica, persino di certe parti della Donna senz’ombra vengono anticipati nello Hänsel und Gretel con straordinaria preveggenza? E poi, quanti rimandi al sinfonismo di Dvořák e Smetana, persino anticipazioni di Lehár in un crogiolo di effetti che assicura un godimento assoluto anche per i palati più raffinati.
Il successo di questo nuovo allestimento scaligero, ovviamente in lingua originale e con il coinvolgimento degli allievi dei corsi di perfezionamento dell’Accademia del Teatro, è dovuto sia alla regìa di Sven-Eric Bechtolf – il Director ha lavorato a lungo con i cantanti di questa produzione – e alle scene di Julian Crouch sia alla illuminata concertazione e direzione di Marc Albrecht. I cantanti hanno seguito con notevole partecipazione sia il coaching di Bechtolf che la preparazione musicale di Albrecht e si sono spesi al meglio per la riuscita del progetto. Albrecht, figlio d’arte, ha guidato per mano l’orchestra dell’Accademia, cui era richiesto un compito di difficoltà immane. E anche se non tutti i dettagli erano a fuoco, il risultato complessivo è andato oltre ogni aspettativa. Buoni i cantanti, con un plauso particolare alla Gretel di Francesca Manzo, e del tutto a loro agio in quanto a presenza scenica, grazie sicuramente – ma non solo – alla guida attenta del regista. Anna Doris Capitelli ha fatto da brillante compagno alla sorellina, Mareike Janowski (la strega) ha cantato miracolosamente pure infagottata di stracci, Gustavo Castillo e Chiara Isotton hanno dato voce e figura alla coppia dei genitori, che per carattere più allontanano il libretto di Adelheid Wette dal racconto originale.
L’idea interpretativa di Bechtolf parte innanzitutto da un parallelo tra la misera vita della famigliola protagonista della fiaba e quella degli accattoni che vivono ai margini di una società opulenta, rappresentata dallo skyline di Manhattan sullo sfondo. E visto che si parla di streghe (con la ramazza) e del buon papà Peter (falegname che le scope le prepara per venderle nelle fiere) ecco che i poveri sono anche loro raffigurati come improvvisati netturbini e la scena fa riferimenti continui anche a scatoloni di imballaggio vuoti, che alla fine rappresenteranno anche il terribile forno della strega cattiva, dove i furbi bambini spingeranno la medesima invece di essere cotti a loro volta e trasformati in deliziosi (e macabri) dolcetti. Una indiretta critica al packaging di una ben nota organizzazione di e-marketing – famosa anche per le stressanti condizioni di lavoro dei propri dipendenti – con le sue scatole piene di nuovi oggetti che attirano grandi e piccini ?
Che le fiabe in genere, e in particolare quelle dei fratelli Grimm, evocassero realtà tutt’altro che edificanti e puntassero il dito sulle nevrosi di adulti e bambini è cosa risaputa. E qui il regista e lo scenografo giocano con sensibilità su questi temi (l’abbandono dei bimbi nel bosco, pratica a quanto pare tutt’altro che rara nella Germania dei secoli bui) senza strafare e allo stesso tempo senza cadere nel lezioso. Anche se alle raffigurazioni da figurine Liebig non si può rinunciare, tanto meno con i mezzi odierni che permettono giochi di luci (bellissimi quelli di Marco Filibeck) e di video (a cura di Joshua Higgason) inimmaginabili un tempo in teatro.
L’oscuro bosco e persino la casa della strega perdono però qualsiasi riferimento angosciante e tutto sommato anche il pubblico si calerebbe volentieri nella realtà virtuale di dolciumi e prelibatezze apparecchiata dalla strega: chi non è goloso alzi la mano. Spettacolo indovinato e piacevolissimo dunque, quello dell’altra sera, che ha meritato gli applausi convinti del pubblico senza esclusione alcuna e che andrà incontro sicuramente a sette repliche altrettanto bene accolte.
Uno spettacolo all’altezza dei migliori della Scala e una ventata di aria fresca in un panorama troppo spesso velleitario e incupito (si pensi solo al vergognoso Die Entführung aus dem Serail del teatro comunale di Bologna).