di Luca Chierici foto © Brescia & Amisano
L’alternanza del gusto e gli orientamenti culturali hanno da sempre regolato l’apparizione di certi titoli nei cartelloni di tutti i teatri del mondo e se la temperatura della situazione – almeno per il patrimonio del melodramma italiano – deve essere interpretata attraverso la programmazione della Scala, l’intenzione del Direttore musicale Riccardo Chailly è quella di puntare di nuovo i riflettori sulla produzione che va sotto il nome generico di “verismo”. L’esperimento recente de La cena delle beffe di Giordano aveva riscosso un franco successo; altri titoli saranno inseriti in programma nel prossimo futuro e la ripresa dell’Andrea Chénier dopo le fortunate recite del 1982-85 dirette dallo stesso Chailly non solo è doverosa, vista l’importanza che il capolavoro di Giordano ha avuto nella storia della Scala, ma si colloca oggi in una prospettiva di rilettura, di parziale modifica nell’approccio musicologico che era più che auspicabile dato l’intervallo di tempo non indifferente che separa l’allestimento odierno da quello precedente.
Non si tratta di cambiare ex-novo la lettura di un testo che è pur sempre un prodotto del suo tempo, qualcosa che non ambisce ad entrare nell’empireo della musica assoluta. Ma allo stesso tempo un certo carattere dello Chénier che ne giustifica il significato al di là della stagione del debutto nel lontano 1896 è testimoniato dal favore accordatogli dal pubblico in maniera costante negli anni, favore che aveva stupito lo stesso compositore, chiamato alla ribalta fino al 1946 (cinquant’anni di carriera!) e testimone di un successo incredibile che sfidava il tempo e le mode. Piuttosto, nell’ascoltare per l’ennesima volta lo Chénier, si ha l’impressione che il carattere vincente dell’opera dal punto di vista drammaturgico e musicale risieda nella successione di primo e secondo quadro e che il dispiegamento di arie di sicuro successo nel terzo e nel quarto facciano rientrare l’opera entro binari che attingono a un sentimentalismo a volte troppo spinto che spiega le reazioni nettamente contrarie di certa critica, ad esempio negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso.
Il nuovo allestimento di questo Chénier è stato anticipato da numerosissime dichiarazioni da parte dello stesso Chailly, che si aggiungono a interviste e prese di posizione del regista Mario Martone e dei cantanti, come del resto è d’uso in quest’epoca di frenetica rincorsa allo scoop e alla creazione di “eventi”, quasi che la nostra vita fosse controllabile così facilmente come si maneggiano i “like” di Facebook. C’è stata innanzitutto una presa di posizione piuttosto netta da parte di Chailly sulla rilettura dell’opera diciamo così in chiave sinfonico-post-wagneriana che assicurasse una continuità musicale all’esecuzione, possibilmente poco o per nulla interrotta dai tradizionali applausi che hanno da sempre accompagnato i punti chiave dell’opera, esclusivamente identificati nelle “romanze” affidate ai protagonisti principali. La serata di inaugurazione della stagione ha in questo senso magicamente obbedito alle aspettative perché non si è sentito neanche un timido accenno di applausi durante il corso dei quattro quadri, come se il pubblico – anche quello delle gallerie – avesse obbedito a qualche invisibile servizio d’ordine.
Ha ragione Riccardo Chailly a dire che le “romanze” dello Chenier, alcune delle quali tradizionalmente presentate anche nei recital di canto, attirano applausi a non finire anche perché parte del pubblico travisa il carattere del testo e del rapporto testo-musica. «Un dì all’azzurro spazio» può essere riguardato come momento di estasi durante un recital, ma diversamente apprezzato, come momento tragico, nel corso dell’ascolto integrale dell’opera. Questo è vero per quasi tutti i momenti chiave di molti lavori, non solo nel caso dello Chénier, ma qualche volta l’applauso non sarebbe stato del tutto fuori posto. Perché, al contrario di certe aspettative, la serata è andata incontro a un successo praticamente totale, soprattutto per la presenza di un trio superlativo di protagonisti e di un altrettanto notevole gruppo di comprimari, nonché del sempre apprezzatissimo coro. Non ci si aspettava uno Chénier così autorevole e vocalmente convincente come quello di Yusif Eyvazov, compagno di vita e di teatro di Anna Netrebko. Eyvazov è un tenore che, pur non dotato di una voce timbricamente pregevolissima e riconoscibile, sfodera una tecnica di prim’ordine, è in possesso di un’emissione regolare in tutti i registri, dà sempre l’impressione di trovarsi a proprio agio e di non temere le asperità del proprio ruolo. E di non temere neppure il confronto con il canto stentoreo della Netrbeko, che a detta di molti avrebbe potuto sovrastare il ruolo maschile. Oggi, con tutti i confronti resi possibili attraverso l’ascolto dei grandi colleghi del passato, un cantante intelligente è in grado di assimilare il meglio dai raggiungimenti stilistici di una tradizione che contava su nomi entrati nel mito, ed Evyazov ha sicuramente meditato e studiato questi riferimenti che hanno fatto la storia dello Chénier, e non solamente alla Scala.
Della Netrebko si può dire che ha soddisfatto tutte le attese e la fiducia che in lei ripone il pubblico di tutto il mondo, riuscendo anche a superare la barriera della correttezza e proprietà stilistica in favore di un appassionato contributo interpretativo che si è ammirato soprattutto nell’arcifamosa romanza del terzo quadro. Luca Salsi ha dato vita a un Gérard molto credibile, descrivendo da par suo la metamorfosi che il personaggio vive nel passaggio da vittima dell’aristocrazia a vittima delle nuove forze che governano la fase post-rivoluzionaria. Ma altrettanto notevoli sono state le altre figure non protagoniste, dalla Bersi di Annalisa Stroppa alla Madelon di Judit Kutasi, il Roucher di Gabriele Sagona, il Mathieu di Francesco Verna, l’Incredibile di Carlo Bosi. A loro sono stati rivolti alla fine saluti entusiasti da parte del pubblico, con una esplosione di petardi di carta che di certo non potevano non essere stati organizzati in precedenza, viste le ferree regole di ispezione che, ancor più del solito, venivano applicate dalla polizia all’ingresso del teatro. Chailly si è meritato l’applauso per il grande lavoro svolto e per l’idea di base che ha regolato la scelta e la concertazione di questo Chénier, opera della quale egli ha sottolineato il carattere sinfonico coprendo a volte – come faceva l’ultimo Karajan alle prese con il repertorio operistico – le voci nelle scene d’assieme.
Un poco deludente – fors’anche perché non ha dato luogo a proteste di alcun tipo – è stata la regia di Mario Martone, che ha accompagnato lo svolgersi degli eventi puntando molto su ciò che musica e libretto già rivelano nei dettagli, soprattutto il passaggio dal mondo dorato del palazzo nel primo quadro al contesto rivoluzionario visto più come momento in cui nascono rivalità e conflitti che esperienza di rinnovamento e di fiducia in un futuro più giusto. Le scene di Margherita Palli hanno assecondato questa visione non nuova e hanno messo nuovamente in moto – è il caso dirlo – il meccanismo della piattaforma rotante che era del resto necessaria a garantire il funzionamento della macchina teatrale soprattutto per l’esecuzione senza soluzione di continuità delle due coppie di quadri. Molto belli e coloristicamente raffinatissimi i costumi di Ursula Patzak. Efficaci le scelte di luci di Pasquale Mari e civettuole come si conviene le coreografie di Daniela Schiavone per il primo quadro.
L’aggettivo giusto per l’allestimento di Martone è “suntuoso”. Martone è “creativo” ma non nell’accezione peggiore che oggi viene utilizzata: “crea” o forse meglio sarebbe dire “ricrea” gli ambienti in cui si sviluppò la rivoluzione francese, dalla lussureggiante scena iniziale che rappresenta una festa di nobili fino alla spoglia scena finale in cui campeggia una sinistra ghigliottina. Se così posso esprimermi sono questi gli allestimenti che vorremmo vedere. Non sempre è ovviamente possibile (il budget della scala è astronomico rispetto a quello di altri teatri d’opera – d’altronde è la flagship della lirica in Italia e anche in buona parte del mondo) ma è l’impostazione e l’arte che contano e sono proprio questi elementi che mancano a tanti registi velleitari e “creativi ” (nel senso deteriore della parola) che oggi infestano i teatri e dei quali – grazie a scellerati sovrintendenti – non riusciamo a liberarci.
La prestazione del tenore Yusif Eyvazov (nella vita marito della protagonista Anna Netrebko) è lungi dall’essere memorabile in una parte oggettivamente difficile e ho derivato la stessa impressione sia ascoltandolo dal vivo che in TV in occasione della prima. Ha un discreto registro intermedio ma il suo modo di cantare è sostanzialmente monotono e in occasione della prima non privo di incertezze. Insomma non trasmette tutto il pathos che una figura così rappresentativa dovrebbe esprimere. In più la voce ha spesso inflessioni metalliche che nuociono alla interpretazione. Ovviamente di alto livello l’interpretazione della Netrebko anche se l’abbiamo ascoltata in esecuzioni migliori e di certo non le giova la stazza ormai matronesca di signora di mezza età mentre dovrebbe esprimere un personaggio nel fiore degli anni travolta da una passione che la porterà a condividere – nella partitura di Giordano – il tragico destino del poeta. Di gran lunga il migliore sotto ogni aspetto è il baritono Luca Salsi in grado di sottolineare tutte le sfumature ambigue del personaggio con doti vocali assolutamente fuori dal come. Una prestazione assolutamente maiuscola anche dal punto di vista teatrale. Molto buone le prestazioni anche di tutti gli altri interpreti. Assolutamente eccezionale la direzione di Chailly che trae da una partitura non facile e spesso diseguale tutti gli aspetti veristici e al contempo drammatici e lirici. Bravo senza se e senza ma.