di Attilio Piovano foto © Unione Musicale
È un piacere già solo vederle entrare sul palco, le mitiche e inossidabili Katia e Marielle Labèque. Un tutt’uno, l’esempio vivente di una totale e inscindibile simbiosi musicale, umana ed artistica e al tempo stesso la complementarità di due personalità spiccate e di fatto anche dissimili. Si tengono per mano come due eterne ragazzine (in tailleur corto rigorosamente stessa fattura l’una in nero e l’altra in rosso fuoco) e lo capisci al volo che per loro far musica è un piacere immenso, è la loro vita, è professione, ma è soprattutto amore e passione: unica e divorante. Non solo, per loro far musica è curiosità di esperire sempre nuove strade, tentare accostamenti inconsueti, studiare nuove pagine e non appiattirsi (come altri) comodamente e supinamente sul repertorio e sulla routine, parola che possiamo ben immaginare non sia contemplata nel lessico della due pianiste dalla perfezione tecnica a dir poco inarrivabile e dalla sopraffina sensibilità specie timbrica (una matrice non a caso squisitamente francese).
A Torino – da dove ha preso le mosse il loro tour che tocca altresì Mantova, Firenze e Bologna – hanno suonato per l’Unione Musicale, serie dispari, la sera di mercoledì 17 gennaio, in Conservatorio, dinanzi ad una platea che gremiva la sala e che le ha festeggiate a lungo, già al loro apparire, avvolgendole con calorosi applausi ai quali Katia e Marielle volentieri rispondono dispensando sorrisi e simpatia. Poi siedono ai due pianoforti e attaccano (in prima italiana) El Chan di Bryce Dessner, brano composto in origine per quartetto con pianoforte ed arrangiato per due pianoforti dall’autore espressamente per il duo Labèque. Pagina un filino dispersiva, con tratti dalle suggestive atmosfere timbriche, ma anche qualche lungaggine e talora – a nostro avviso (ma occorrerebbe forse riascoltare con calma ed analizzare con cura la partitura) – un che di non risolto, dovuto forse proprio alla veste primigenia. Dessner compose la pagina per l’amico Alejandro González Iñárritu e per la di lui consorte Maria Eladia Hagerman, durante un soggiorno a San Miguel Allende, in Messico dinanzi ad un panorama – dichiara l’autore – che coniuga canyon e l’orizzonte del lago El Charco del Ingenio, già fonte di ispirazione per leggende popolari. Lo spirito guardiano del lago, El Chan, per l’appunto, secondo l’assunto del compositore, sovrasta il lavoro nel quale verosimilmente egli intenderebbe evocare il mutamento di colori del lago stesso nel corso delle stagioni, nonché la limpidità dell’acqua sorgiva. Pur tuttavia, a dire il vero, ben poco di tutto ciò traspare dal brano, pur ben confezionato ed al quale le Labèque hanno saputo conferire una bella veste timbrica col loro tocco raffinato.
Poi ecco l’universo bartokiano del Mikrokosmos, testimoniato da cinque brani estrapolati dalla celeberrima raccolta, e si trattava di Bulgarian Rhythm, Chord and Trill Study, Perpetuum Mobile, New Hungarian Folk Song e Ostinato. E non sapevi se ammirare maggiormente la perfezione dell’affiatamento o la bellezza del tocco, l’incisività dei ritmi o la capacità di mettere a fuoco il giusto ‘sound’ bartokiano, di renderne appieno il flavour, quel colore peculiare, quel vento dell’Est che ne contrassegna l’opera. In realtà i cinque pezzi dal Mikrokoscmos non erano che il preludio, il viatico per giungere al Gotha della sublime Sonata per due pianoforti e percussioni, in assoluto – si sa – uno dei vertici della letteratura musicale (e non solamente pianistica) del ‘900. Capolavoro di sconvolgente modernità e di sovrumana bellezza. E dire che è del 1937 ed ha ormai 80 anni suonati, e li porta benissimo. Per la Sonata erano stati convocati l’ancor giovanissimo e fuoriclasse percussionista Simone Rubino, un talento di quelli memorabili, uscito dalla scuola del Conservatorio torinese ed il non meno valoroso Andrea Bindi emerso invece dal Conservatorio di Bolzano ed ormai entrambi in carriera. Raramente il pubblico ha potuto gustare il capolavoro bartokiano in tutta la sua perfezione tecnica, ammirarne le ingegnose ed ammalianti poliritmie, percepirne il singolare charme armonico, imbevuto di echi folklorici e – in una parola – coglierne la rilevanza storica ed artistica: una lezione di stile, quasi una analisi puntuale della partitura dal caratteristico percussivismo tastieristico resa in termini eminentemente sonori, quella realizzata dalle Labèque in abbinamento a Rubino e Bindi. E non a caso a fine esecuzione il pubblico ha decretato una vera e propria ovazione ai quattro interpreti, ricevendone in dono la ripetizione dell’Allegro.
Da registrare ancora, oltre alla prova di bravura di Rubino in Thirteeen Drums per sole percussioni op. 66 del nipponico Maki Ishii, le tre danze ungheresi brahmsiana inserite a metà serata: si trattava di quella in sol minore (la celeberrima n. 1) che le Labèque hanno saputo come rigenerare, come ricreare splendidamente (magari in maniera anche non condivisibile da alcuni) immergendola in una luce inedita, più ancora in un’aura quasi impressionistica, alonata e insolita. Bella poi e coraggiosa la scelta di inserire la n. 20 in mi minore che si ascolta di rado (dacché non è di quelle che immediatamente si fanno apprezzare, non avendo l’appeal estroverso delle più celebri) eppure quanta ricchezza timbrica ed armonica, anche in tal caso, Katia e Marielle hanno saputo estrarre, come distillandone l’essenza ultima. Ma il vero clou era con la notissima n. 5 in fa diesis minore dove è facile compiacere il pubblico puntando sui tira e molla eufemistici e strappa applausi e sulla velocità forsennata. E invece, quanta grazia quanta souplesse (mi si perdoni la stucchevole insistenza) di matrice ancora una volta marcatamente francese; e lo stupore per certi glissando e certune audaci varianti che sono il segnacolo, il sigillo o, come si dice oggi, l’imprint di quella confidenza con la musica che solo i grandi (le grandi, anzi grandissime, in questo caso) si possono permettere. Chapeau, Katia e Marielle.