di Luca Chierici foto © Vico Chamla
Il recital annuale che Sokolov propone ovunque nel 2018, e che ha interessato anche diverse città italiane (a Milano è stato ospitato come al solito dalla Società dei Concerti il 23 Maggio scorso) si reggeva su un impaginato molto semplice: tre sonate di Haydn nella prima parte e gli Improvvisi D 935 (op. 142) nella seconda. Non parliamo qui dei numerosi bis concessi dal grande pianista, perché più che un complemento ragionato al programma ci sembra rappresentino la continuazione di un’attitudine ben nota a chi frequenta i recital dei pianisti dell’area russa, almeno nel caso in cui i nomi in gioco siano quelli (ad esempio) di Berman o di Kissin. Ricordo benissimo quando nell’ottobre del 1974, sull’onda del successo tributatogli dal pubblico italiano, Lazar Berman venne invitato a suonare alla Scala all’interno di un concerto diretto da Gabriele Ferro. Il Concerto scelto da Berman – il quarto di Beethoven – non era esattamente nelle sue corde e si inseriva con difficoltà in un programma che prevedeva musiche di Dallapiccola e Ives, ossia quanto di più male assortito si potesse immaginare. Al termine dell’esecuzione, Berman iniziò a proporre una gragnuola di bis, anch’essi male assortiti com’era suo costume, passando da una Marcia di Prokofiev a qualcosa di Liszt, forse il Rondò op.129 di Beethoven. Parte del pubblico, formato anche da entusiasti supporter del pianista, reagì molto bene, ma da molte direzioni si ascoltarono commenti non proprio felici, sia per il numero interminabile di encores, sia per la qualità degli stessi. Non dimentichiamo che in quegli anni lontani il pubblico era abituato ai castigatissimi bis polliniani, rigorosamente attinenti agli autori presentati nel programma principale. Le scelte di Sokolov sono in questi casi più misurate – lui non è certo il pianista che alla fine del concerto si esibisce in un repertorio di bravura – ma tendono in ogni caso a far perdere la concentrazione sul programma appena ascoltato, aggiungendo l’altra sera ad appropriati richiami schubertiani anche Rameau, Chopin e Skrjabin.
Dunque Sokolov si accosta a papà Haydn, e non lo fa certo per la prima volta. Ma quando si presentò sempre a Milano nel marzo del 2002 con altre tre sonate dello stesso autore (la n. 23 in fa maggiore, la 47 in mi minore e la 50 in do maggiore, secondo il catalogo Hoboken) nessuno ci fece gran caso, forse anche perché il pianista non era ancora entrato a far parte della categoria degli oggetti di culto. Si notava già allora, però, un modo di suonare nitidissimo, leggermente aggraziato e tendente a posizionare queste sonate insistendo più sul carattere Rococò a discapito di quello Sturm und Drang e del tardivo ripensamento stilistico degli ultimi anni (le sonate in questione appartengono invero a tre periodi ben distinti: 1773, 1784 e 1794). Oggi qualsiasi proposta avanzata da Sokolov andrebbe soppesata in termini di coerenza storica e di approccio stilistico e a ben guardare la prima cosa che salta all’occhio di questo nuovo programma haydniano è la scelta che cade su tre sonate in tonalità minore, poco differenziate in termini cronologici. Le sonate n. 32 in si minore, n. 36 in do diesis minore e n. 44 in sol minore appartengono al periodo che va dal 1770 al 1776 e vengono comunemente considerate come esempi di un’evoluzione stilistica più attenta alla sperimentazione formale che all’aspetto puramente tastieristico. Ma la scelta della tonalità minore e la condotta musicale ci rammentano anche e soprattutto l’influenza dello stile “sentimentale” (Empfindsamer) di Carl Philipp Emanuel Bach e in tal senso ci si attende che l’esecutore sottolinei con appropriata tensione e partecipazione questo dettaglio importantissimo che caratterizzò in maniera fondamentale il gusto di quei tempi lontani. Sokolov, lo conosciamo bene quando si immerge da par suo nella letteratura clavicembalistica dei Rameau, dei Byrd, dei Froberger, preferisce lasciar parlare la musica attraverso l’assoluto rispetto del testo (per ciò che riguarda il fraseggio e l’ornamentazione, non certo grazie alla scelta del moderno pianoforte) mettendo da parte qualsiasi contaminazione che potrebbe provenire da una lettura “romantica” del repertorio antico.
Con Haydn questa ricetta vale fino a un certo punto, perché i contenuti presenti nelle tre sonate scelte da Sokolov possono anche solleticare letture proiettate in avanti nel tempo. È ciò che avviene ad esempio nel caso di due altri pianisti haydniani che hanno suggerito vie nuove nelle loro proposte discografiche e concertistiche, e parliamo ovviamente di Sviatoslav Richter e di Alfred Brendel. L’altro elemento che ha lasciato molti ascoltatori piuttosto perplessi è stato quello relativo all’esecuzione delle tre sonate senza soluzione di continuità. Quale messaggio si vuole veicolare in questo caso? Non certo quello di una continuità di pensiero fra tre elementi pensati in momenti differenti, tantomeno un accenno a una eventuale vicinanza tonale. E si insinua il dubbio che tale scelta venga sostenuta quasi per una sorta di narcisismo intellettuale, come a sottolineare la indiscutibile autorità di colui che siede allo strumento, in barba alle aspettative di un pubblico che magari vorrebbe ascoltare i tre numeri avendo a disposizione un breve intervallo di stacco. È una moda, questa, che è affiorata da non tantissimo tempo e che ha contaminato artisti come Schiff, Pletnev e più recentemente il giovane Daniil Trifonov. Una proposta (meglio se accompagnata da un abbassamento radicale delle luci in sala) che potrà anche esercitare un certo fascino ma che tra le altre cose non aiuta una parte del pubblico a districarsi nei meandri del programma (“Ma cosa mai starà suonando adesso ??”). In ogni caso allo Haydn in punta di forchetta, nitido e preciso quanto si vuole, di Sokolov continuiamo a preferire quello più sanguigno di Richter e quello più sereno e a volte umoristico di Brendel.
Haydn – Sonata n.36 do# (Moderato) – Sokolov G. – 230518
Con la seconda parte del recital “ufficiale”, il pianista ha poi affrontato nuovamente il complesso mondo schubertiano, da lui illustrato già molte volte in passato attraverso gli “altri” Improvvisi, i Momenti musicali, i Klavierstücke D 946 e un numero non indifferente di Sonate (ne abbiamo contate otto). Anche in questo caso è prevalsa l’ammirazione per la pulizia del suono, la cura del dettaglio, non certo per la partecipazione viscerale a un discorso che è pur fatto di emozioni molto intense. I tempi molto moderati (la durata si è attestata sui quarantaquattro minuti, un primato di lunghezza raggiunto solamente dall’Arrau molto in là con gli anni e molto più in là in quanto a visione poetica) danno luogo a una lettura affascinante quanto si vuole ma lontana dalle emozioni che provenivano dalla lentezza assertiva di Richter, dall’espressività coinvolgente di un Lupu. E in alcuni casi sembra che le scelte di Sokolov siano dettate ancora da una volontà sterile nel seguire strade non battute da altri, giusto per il piacere di affermare una propria originalità che non è giustificata dal contesto musicale. In tal senso è sembrata quasi incomprensibile la scelta di eseguire lentamente, in maniera scandita, la irruente scala discendente di fa minore che chiude l’ultimo Improvviso, là dove quasi tutti gli interpreti sottolineano un carattere di corsa verso l’abisso che è caratteristica principale di una “coda” assai drammatica.
Schubert – Improvviso fa op.142 D.935 n.4 (finale) – Sokolov G. – 230518
Si tratta solamente di una ipotesi, ma a volte sembra che l’impostazione fin troppo analitica di Sokolov non permetta il raggiungimento, all’interno di un testo, del (o dei) momenti di accumulo delle intenzioni espressive dell’autore (il cosiddetto “punto” come lo chiamava Rachmaninoff). A meno di non concludere che la ricerca di questo “punto” sia del tutto opzionale e tutto sommato poco interessante. De gustibus.
Anche io concordo con Davide, al 100%. Un pianismo sofisticato e di ricerca come quello di Sokolov, lontano da ogni forma di routine, troppo facilmente viene scambiato per ricercatezza esibita o per un tentativo di distinguersi a tutti i costi. Ma è fin troppo facile vedere quanto la personalità del pianista sia in realtà orientata in tutt’altra direzione, a differenza di vari interpreti di ieri e, soprattutto, di oggi (a partire almeno da Pogorelich, il cui ‘caso’ ha segnato un punto di svolta e di non ritorno nella musica classica). Anche Glenn Gould venne, a torto, accusato di voler fare l’originale a tutti i costi e, anche lì, è evidente che certe scelte (assolutamente discutibili) erano dettate da ragioni culturali ed identitarie e non da scelte di marketing. Per questo, pur non amando Gould, lo rispetto e lo stimo. Accusare Sokolov (o Gould) di essere come sono in funzione di una convenienza personale, dell’originalità a tutti i costi, della nicchia artistica da occupare, ecc ecc è puro delirio: altri sono quelli che con assoluta nonchalance si macchiano di simili peccati capitali (non serve fare nomi, sono sotto agli occhi di tutti). Anche quando si preferiscono altre strade, altre interpretazioni, altre idee – è, ci mancherebbe, del tutto legittimo – non si dovrebbe mai dimenticare di quanta dedizione, quanta perfezione tecnica, quanta miracolosa cura del suono e del fraseggio questo gigante della tastiera riesce sempre a dominare. Sono fatti oggettivi, questi ultimi, poi il risultato finale (il punto, come direbbe Rachmaninov) può sempre non piacere. Ma di lì a far passare Sokolov per un pianista come tanti, di quelli che amano far parlare di sé attraverso la musica invece del contrario, ce ne corre. E mi sembra che questa recensione tenda a far passare questo messaggio, dando per scontate troppe cose.
Sokolov non ha alcun interesse a inseguire l’originalità fine a se stessa; egli è fedele alla musica come nessun altro, al punto da rifiutarsi di incidere in studio di registrazione e rifiutando ogni tipo di pubblicità mediatica, a differenza di pianistucoli diventati famosi per gonne vertiginose o abiti di Zegna. Avendo ascoltato i grandi moderni, (Argerich, Lupu, Zimerman, Schiff, Uchida) posso dire con certezza che nessuno mi ha emozionato come Sokolov, né tantomeno nessuno mi ha fatto amare Schubert, Rachmaninov, Schumann, Rameau, Chopin come lui. Il suo approccio analitico-microscopico della partitura non denota altro se non un rispetto enorme per le composizioni affrontate, che, unito al più alto grado di perfezionismo immaginabile da origine ai suoi concerti. A prova di ciò la totale assenza di virtuosismi negli Improptus di Schubert, dove non ritiene affatto necessario “precipitare in abissi”alcunchè.